E nel frattempo, godiamoci il paesaggio.

Bisogna rispettare l’orologio delle emozioni, prendere le distanze, ascoltare la propria fragilità. Ascoltare i tempi propri ed il tempo  degli altri e sentire ciò che é sincrono a sé, lasciando andare ciò che non lo è.

Assecondare i propri desideri e ricercare ciò che ci fa stare meglio senza infrangere il terreno altrui ma concimandolo di entusiasmi.

La via per la felicità è così piena di bivi e non sempre prendiamo quello giusto. Ma la strada che abbiamo davanti porta comunque a qualcosa. Quello che non deve mai mancare é qualcosa (un obiettivo, un progetto, un desiderio, una nuova consapevolezza) che quella strada faccia venire voglia di percorrerla.

Qualunque strada sia diventerà la tua se la percorri mettendoci l’anima.

Ha un suo ritmo la felicità: e non sempre camminiamo con la stessa andatura.

E’ così delicato, il mondo che custodiamo: non si può avere fretta.

Ma non si deve nemmeno consumare energia per qualcosa che non si accorda con il tuo diapason. Che non abbia le stesse albe e gli stessi tramonti. E la medesima  voglia di vivere intensamente il momento.

C’e un percorso da compiere. Lungo o breve che sia, fugace o intenso che sia, dobbiamo seguirne le curve, le salite, i tratti più insidiosi, assecondare il tempo e il maturare naturale delle cose.

E, con fatica, per chi davvero vuole vivere autenticamente ogni attimo di vita, per chi vuole dare un senso alla parola vita, accade sempre qualcosa di straordinariamente naturale come tutte le cose che hanno assecondato il tempo necessario perché fossero profondamente autentiche.

E nel frattempo però…godiamoci quanto più possibile il paesaggio…senza inutili scorciatoie e senza sostare dove non ne vale la pena

Partita doppia

Il cambiamento dipende soprattutto da come guardiamo al bilancio di esercizio della nostra vita e della nostra attività lavorativa. A come contabilizziamo perdite e guadagni.

Per cambiare, dobbiamo imparare a “riclassificare” le voci del nostro bilancio.

Siamo portati a fare il bilancio della nostra vita, solo attraverso il “conto economico” (ciò di cui disponiamo, il saldo delle cose che ci succedono) e non secondo la situazione patrimoniale (chi siamo, i nostri valori, il bagaglio di competenze, le esperienze accumulate, il network di relazioni su cui possiamo contare).

Il “bilancio di esercizio” in economia aziendale è la visione di insieme da redigere allo scopo di perseguire il principio di verità ed accertare “in modo chiaro, veritiero e corretto” la propria situazione patrimoniale e finanziaria ed il risultato economico di esercizio finale.

Se non siamo quindi autentici e mettiamo in chiaro nella nostra contabilità anche le cose a cui (volutamente) diamo meno importanza, non ci accorgeremo di quegli indispensabili “accantonamenti” a cui attingere nei momenti straordinari.

In contabilità aziendale, il principio di competenza è una prassi che consiste nel considerare, nel conto economico di un bilancio d’esercizio, solo i costi e i ricavi che si riferiscono e hanno effetto in quel periodo di tempo, a prescindere dalle manifestazioni finanziarie già avvenute o che devono ancora avvenire.

E’ un po’ come se ad ogni ultimo dell’anno, chiudiamo l’impresa e ne riapriamo un’altra completamente nuova. Senza avere portato a patrimonio nulla.

Impariamo allora a riscrivere con maggiore chiarezza il nostro bilancio. E nella nota integrativa, mettiamo sempre in evidenza un po’ di gratitudine alle cose che ci capitano, alle persone che incontriamo, alle esperienze che viviamo e che troppo spesso registriamo in “contabilità” senza nemmeno assaporarne il valore.

Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Tu intanto versa

In The Bourne Ultimatum, il protagonista dice “Spera per il meglio ed aspettati il peggio”. E’ questa di solito la trama dei nostri pensieri. Il muretto che ci blocca davanti la soglia del cambiamento.

Siamo abituati a pensare per sottrazione. L’avversione alla perdita è insita in noi molto più che la propensione al guadagno.
La tendenza al pessimismo che ci frena nel cambiamento è figlia di un algoritmo mentale che abbiamo elaborato per difenderci dalla più insidiosa delle paure, la paura dell’ignoto.

Tendiamo a sovrastimare le perdite e sottostimare i guadagni e per un intrinseco meccanismo di difesa che facciamo scattare ogni qual volta ci apprestiamo ad affrontare un cambiamento.

Si tratta di un’abitudine a rimanere ancorati alle cose, sedimentata nel nostro fare. Serve quindi allenamento per invertire la tendenza.

Allenamento alla gratitudine. Impariamo ad esplorare le novità con fiducia e ottimismo, anziché proteggerci da ciò che vediamo come ostile solo perché nuovo. Iniziamo filtrando informazioni e notizie che evidenziano ciò che di più brutto e triste esiste al mondo e che ci vengono presentate enfatizzando gli aspetti negativi e nascondendo quelli invece positivi (perché vende molto di più la paura che la felicità).

Il nostro sistema interno va in allarme davanti a qualsiasi imprevisto, ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa di inaspettato o ignoto.

Ed allora alleniamo la nostra mente a non vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, ma sempre come un bicchiere dove può essere ancora versato da bere. Vino buono, di qualità.

Cambiamo prospettiva e vedremo che riprenderemo in mano il timone del nostro modo di pensare, mettendo le vele in posizione favorevole ad accogliere il vento dell’ottimismo. O almeno il vento del fare.
Le cose migliori, se ci pensate, vi sono sempre capitate in modo inaspettato. Ma forse eravate già con la testa ad aspettarvi il peggio. E non le avete trasformate in occasione di cambiamento.
Ed allora, facciamoci trovare pronti.

Bicchiere mezzo o mezzo vuoto ? Tu intanto versa e brindiamo alle cose che accadono. A cui permettiamo di accadere.

Andrà tutto bene? Dipende da noi.

Andrà tutto bene?
No, andrà come noi faremo in modo che vada.
Ci sarà da lottare, fare sacrifici, lavorare in un modo diverso di prima, cambiare i consumi, rinunciare ad alcune cose, scegliere la qualità anziché la quantità nei consumi come nelle relazioni, programmare diversamente le risorse pubbliche, pretendere più diritti e meno privilegi, avere uno stile di vita più rispettoso dell’ambiente, un uso delle città più ecologico. Faremo valore al merito ed alla competenza.
Ma l’Italia ha risorse, ha cultura, ha creatività.
Se metterà in campo la competenza, e metterà da parte privilegi e odio sociale, allora andrà tutto bene. Anzi, meglio.

5 Lezioni che possiamo imparare da questo periodo

Vola solo chi osa farlo” ci lascia questo regalo Luis Sepulveda. L’immagine della gabbianella che spicca finalmente il volo, dimostrando al mondo, e soprattutto a sé stessa, che l’unico modo per volare risiede nel coraggio. E che del coraggio ti ricordi solo quando sei sull’orlo del precipizio. Questo straordinario momento, complesso e pieno di incertezze, che ci ha fatto repentinamente perdere le nostre sicurezze, ci dà proprio questa possibilità.

Di scoprire il coraggio di cambiare. 

Per ripartire dopo questo brusco e faticoso stop, occorre abbandonare le proprie sicurezze, affrontare il cambiamento, e spiccare il volo. Nessuno, infatti, può davvero insegnarci a volare, o se volete a cambiare, se non troviamo il coraggio noi per primi di acquisire nuove consapevolezze, di modificare prospettiva, nella nostra vita, nei nostri modelli di business, nella società. Quello che sta accadendo ci sta cambiando in profondità.  Ci sta insegnando ad avere sulle cose uno sguardo diverso. A definire nuove priorità. Ad orientare in modo diverso i nostri consumi. A ristabilire nuovi equilibri. Impariamo quello che ci sta comunicando.

La prima “lezione” che ci sta insegnando questo tempo è avere a che fare con l’incertezza.

La ricerca continua di notizie ed informazioni non ci libera dal senso di insicurezza che ci ha dato il confrontarci con qualcosa di nuovo. Cambiare sguardo significa prima di tutto rinunciare a dare una risposta certa a tutto. Ammettere di non potere né prevedere né controllare tutto. Solo questo ci permette di apprendere un modo nuovo di fare le cose e superare le nostre insicurezze celate dietro il bisogno di farsi trovare “sempre sul pezzo”. L’incertezza ci rende insicuri e ci impedisce di programmare noi il nostro futuro fino a quando non avremo identificato le coordinate del presente. Chi gestisce progetti complessi sa che invece l’incertezza è una variabile inevitabile: non esiste progetto senza un grado di incertezza. Solo l’incertezza permette di guardare al problema da prospettive diverse da quella solita. Quella prospettiva che genera l’innovazione. Ed allora la lezione da trarre è imparare che la nostra conoscenza è sempre parziale ed incompleta, e che non si può avere il pieno controllo sulle cose. La via per osare e volare è imparare ad avere nuovi punti di riferimento. Ripartire innovando i nostri modelli di vita e di business, e non semplicemente riprendere esattamente da dove eravamo rimasti. Non è alla normalità che dobbiamo tornare, perché non era quella la normalità.

La seconda lezione ci invita a “rallentare”. Fermandoci abbiamo riscoperto il tempo, il suo valore. Il valore delle relazioni e delle connessioni. Abbiamo appreso che il digitale non può sostituire le relazioni fisiche ma può aiutare a rendere ottimali molti lavori. Difficile pensare che si tornerà completamente indietro, a dover essere sempre fisicamente presenti al lavoro, e non semplicemente connessi e produttivi. Abbiamo scoperto il valore della solidarietà, come capita nelle crisi di sistema, dove ci si sente sulla stessa barca e si rivolge un sorriso persino a chi ti prende il posto in fila al supermercato, si pensa al bisogno di chi ha meno di te, si presta (finalmente) attenzione all’esperienza della precarietà. La spinta al cambiamento ci viene in questo caso mosso dall’esperienza della fragilità umana. La pandemia ci ha dispiegato che, per quanti sforzi facciamo, non siamo mai padroni del nostro destino. Di fronte a questa fragilità, abbiamo l’opportunità di scopre la qualità etica del legame che unisce le comunità. L’esercizio della responsabilità di ciascuno verso la sicurezza di tutti. La sentinella posta a difesa del bene comune. Quella che sinora abbiamo delegato ad altri.

Terza lezione: abbiamo  capito che nessuno si salva da solo.

Ed allora, cogliamo l’occasione per redistribuire la ricchezza e riportare le disuguaglianze sociali a un livello accettabile e degno di una società collettiva. Ai livelli a cui eravamo attestati, nessuna società può veramente dirsi <comunità>.  È un tema cruciale che deve vederci tutti coinvolti perché mina qualsiasi nostra ipotetica idea di futuro. Vale questa lezione anche per qualcuno dei nostri interlocutori europei. 

La quarta lezione parla di competenza.

Ce ne eravamo dimenticati. Scopriamo invece quanto sia necessario riscoprire due condizioni spesso carenti nello scenario politico, ma che dovrebbero rappresentare i requisiti fondamentali per entrare a farne parte: la qualità del pensiero politico e la capacità di amministrazione. Abbiamo sperimentato, e ci voleva l’esplosione di un’emergenza epidemiologica di tale portata, che non è possibile prescindere da personalità che sappiano maneggiare con cura la cosa pubblica e facciano ripartire un motore burocratico ingolfato da decenni, soprattutto ora che ci sarà bisogno di una svolta per rilanciare gradualmente il sistema produttivo del Paese. Cogliamo l’occasione per affermare un sistema più preparato ed efficace, che ci renda più credibili anche sul piano internazionale.

La quinta lezione ci invita a ridare valore all’autenticità. 

ll momento che stiamo attraversando ci offre la possibilità, davvero unica, di ritrovare una dimensione più umana, di togliere il superfluo, di ridare valore ai consumi. L’opportunità davanti alla quale ci mette questo momento è di rendersi conto di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo, comprare scegliendo e non accumulando, scegliere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Significa scegliere di fare consumo consapevole, due parole che abbiamo sempre letto nei testi di sostenibilità ma che non avevamo fatto nostri, pensando che fossero destinati solo ad un’elite ambientalista. Questa è forse la più importante lezione che possiamo trarre da questo momento. Semplificare i consumi, apprezzare il prodotto che si compra, rivalutare la filiera. E comprare locale. Non siamo idealisti, lo sappiamo che ci vorrà tempo per metabolizzare queste lezioni. Ma le cose cambiano solo per uno choc gestito bene. Cambiano quando trasformiamo la crisi in rinascita. Quando sostituiamo la parola problema con la parola sfida. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, la fine non è ancora arrivata. Ma si intravede la luce alla fine del tunnel. I pezzi ci sono tutti sulla scacchiera. E’ una partita che ci aspetta da tanto tempo, ne avevamo schivato i segnali. Avevamo proseguito incuranti. Ma adesso non ci sono più scusanti. Impariamo la lezione dell’avversità e trasformiamola in opportunità.

Il futuro ci viene incontro nella forma dell’esigenza del cambiamento. E ci offre qualcosa di inatteso, la possibilità di avere uno sguardo nuovo sulle cose. Lasciamolo accadere.

Un’occasione per innovare

L’emergenza CoronaVirus rappresenta una grande sfida anche sotto il profilo dell’innovazione dei modelli di lavoro. Il sistema del lavoro in Italia resta infatti ancorato più a logiche legate a modelli di lavoro non sostenibili, rigidi, legati alla presenza fisica sul luogo di lavoro, che non al risultato. 

Il decreto legge  23 febbraio 2020 n. 6, varato dal governo nazionale per contrastare la diffusione del virus sta spingendo molte aziende ed anche la pubblica amministrazione a sperimentare sistemi di smart working. 

E così in Italia è prepotentemente entrata in uso la parola smart working, il lavoro <agile>. Si tratta di un nuovo modo di lavorare, che nasce sulla spinta delle nuove tecnologie e permette un approccio più flessibile all’attività produttiva con vantaggi per le imprese e per i lavoratori ma anche per la comunità.

Malgrado l’Italia avesse già una legge tra le più avanzate in Europa (legge 81/2017), procedeva lentissima la diffusione di questo modello di lavoro, che – se correttamente adottato –  incide positivamente sulla produttività dei lavoratori (riducendo il tasso di assenteismo), diminuisce i costi di impresa (attraverso la riorganizzazione dei luoghi e dei carichi di lavoro), aumenta il tasso di partecipazione al lavoro delle donne (permettendo la conciliazione vita-lavoro) e migliora l’ambiente (riducendo i carichi ambientali di spostamento per raggiungere il luogo di lavoro, meno traffico, meno rumore, meno incidenti).

Uno studio dell’Università di Stanford ha rivelato che la produttività tra i dipendenti dell’agenzia di viaggi cinese Ctrip era aumentata del 13% con il telelavoro. De Masi ha tracciato una stima di impatto nel modello impresa In Italia, stimando una produttività del lavoro aumentata del 22%. 

In linea con le economie più competitive, nel 2017 anche in Italia era stata approvata la legge che prevede l’introduzione del lavoro agile, ma la sua diffusione è stata rallentata dalla rigidità del sistema del lavoro e dalla resilienza delle organizzazioni di lavoro all’innovazione tra un modello di lavoro basato più sul controllo ‘fisico’ del lavoratore che non sul risultato.

Se in 3 anni solo poche aziende hanno trasformato i loro modelli di lavoro e di business, utilizzando le nuove tecnologie per favorire forme di lavoro smart, in pochi giorni a seguito delle deroghe introdotte dal decreto 6/2000 (relativamente soprattutto agli accordi sindacali) sono diverse le aziende che – per non chiudere – stanno organizzando modelli di lavoro agile.

Da un sistema resistente al cambiamento. 

L’emergenza spinge infatti alla flessibilità, che è il terreno necessario per innovare. 

Se lo smart working si affermasse come una buona soluzione per superare le difficoltà temporanee, significherebbe anche poter dare maggiore spazio in futuro a modelli di organizzazione che prediligono la flessibilità, con maggiori vantaggi competitivi dell’azienda e benefici collaterali, da quelli sulla vita personale dei dipendenti a quelli sul traffico cittadino e più in generale sull’ambiente.

Risparmio di tempo e denaro per gli spostamenti, ottimizzazione del tempo impiegato per lavorare, maggiore produttività. Ma non solo: lavoro agile significa incidere sul paradigma del lavoro spostando l’asse dalla cultura italica dal posto fisso  alla cultura del merito e della competitività.

Il mondo del lavoro è cambiato, deve cambiare anche l’approccio al lavoro. 

La rivoluzione digitale sta modificando fortemente il mondo del lavoro: il contesto è infatti decisamente cambiato rispetto a qualche anno fa, quando il posto fisso era un punto di arrivo per molti, i percorsi di carriera lineari, il mercato del lavoro più statico. Oggi, non può essere il lavoro l’obiettivo di riferimento, ma la piena occupazione. 

Essere smart workers significa sapersi mettere in gioco e reinventarsi quasi quotidianamente, facendo leva solo sulla propria professionalità, sulla capacità di apprendere  riapprendere in funzione delle dinamiche del mercato del lavoro.

Gli smart workers possono impostano il loro rapporto con l’azienda in modo relazionale, non si vedono legati per sempre allo stesso lavoro, e questo li rende portati alla transazione personale con l’impresa, mantenendo sempre la loro autonomia. Lo smart worker si orienta con le regole che valgono per il libero professionista. Per il nuovo lavoratore è importante che l’esperienza che sta maturando sia un’opportunità di sviluppo di nuove competenze, nell’ottica della piena occupazione, anche laddove cambia il mondo del lavoro. Per le aziende è fondamentale che chi lavora contribuisca a portare valore all’impresa.  La relazione tra impresa e lavoratore si basa cosi sui concetti di valore e merito, e non su posizioni di rendita acquisite. 

Insomma, forse una notizia buona dall’emergenza coronavirus c’è, ed e che ci sta portando verso una trasformazione culturale profonda dei nostri modi di pensare il lavoro. Verso traiettorie di maggiore competitività ed occupabilità, se sapremo innovare.

Donne, Giovani, Sud : ridurre i divari per rilanciare l’Italia

Serve oggi una nuova narrazione, che faccia riferimento ad un’idea di Paese non più divisiva ma unitaria sulla quale fondare le politiche per la crescita. L’errore sinora largamente fatto è stato quello di una narrazione Nord/Sud come due entità distinte con problemi diversi e, perciò, alla ricerca di soluzioni distinte.

La rappresentazione distorsiva racconta invece di una demarcazione netta tra Nord e Sud. Un Nord che produce ed un Sud che consuma.Un Nord che va fatto crescere per competere ed un Sud che invece va assistito.

Il gap occupazionale Nord-Sud, solo nel 2018, è stato di quasi 3 milioni di persone e complessivamente il divario tra le due aree continua ad allargarsi. E i costi di questa demarcazione la pagano in misura maggiore le fasce più deboli, donne e giovani del sud.

Il riequilibrio tra nord e sud richiede allora politiche economiche e sociali che promuovano competitività e coesione, e che però partano da una lettura corretta della situazione, non distorta nelle premesse e quindi nelle conclusioni.

Partiamo da alcuni esemplari dati. Le regioni del Sud Italia hanno il più basso tasso di occupazione d’Europa! Nel 2018 gli occupati al Sud tornati sotto la soglia dei 6 milioni, con un calo nella maggior parte delle regioni del Sud. Rispetto a una media Ue del 73,1% (dati Eurostat 2018), al Sud solo il 45% delle persone tra i 20 e i 64 anni ha un lavoro. In Sicilia il 44,1%. Lavoro precario e a tempo compresi.

Il tasso di attività si ferma al 54% e quello di occupazione al 43,4%. La disoccupazione giovanile, invece, raggiunge il tasso record del 51,9%, il 53,6% in Sicilia. E tocca punte massime al crescere del livello di istruzione. In pratica, un giovane meridionale su 2 non lavora, e l’emergenza lavoro per i giovani Sud non accenna a ridursi determinando, insieme al ridotto tasso di natalità, lo spopolamento delle aree del sud.

L’OCSE ha rimesso l’Italia al primo posto per emigrazione. Uno dei punti di maggiore fragilità del Sud sono i giovani, costretti ad abbandonare il Sud. Falcidiati dal calo delle nascite degli ultimi anni, sono sempre meno e meno presenti sul mercato del lavoro e hanno peggiori condizioni lavorative, maggiore precarietà, più bassi salari.

Ed è però profondamente errata la narrazione che si fa dei giovani del sud rassegnati a rimanere fuori dal mondo del lavoro.

Le statistiche pubblicate da UnionCamere dicono infatti altro. Le nuove imprese under35 anni al Sud sono il 40,7%, al Nord il 39,6%. Al sud malgrado tutto, e malgrado i tassi di emigrazione e neet c’è voglia di intrapresa giovanile. Ma non ci sono le condizioni perché queste imprese da startup facciano il salto in aziende mature. Tra il 2002 e il 2017 gli emigrati dal Sud sono stati più di 2 milioni, di cui la metà sotto i 35 anni. Al netto dei rientri, il Sud ha perso 852mila persone).

Le regioni del Sud Italia sono le ultime in Europa per tasso di attività e tasso di occupazione femminile e detengono il record per NEET.

La questione anagrafica e di genere diventa perciò paradigmatica per cogliere le crescenti difficoltà del Sud. E sono dati, questi, che entrano tutti nel computo della quantità di risorse Ue assegnate all’Italia.

Un Sud indietro nei parametri ma che non sa usare i fondi UE conviene quindi al Nord.

I gap del sud cioè mantengono alta la quota di risorse UE che l’UE stanzia all’Italia mentre non altrettanto alta è la quota di risorse che va a beneficiari del Sud.

I fondi europei vengono assegnati all’Italia in misura direttamente proporzionale agli indici di sottosviluppo del Sud, e che gli stessi sono destinati per l’85% al Sud, al fine di ridurre proprio le differenze di velocità, ma vengono invece utilizzati invece per il 73% al Centro-Nord.

Nel Sud l’impoverimento della società insieme al progressivo peggioramento nell’offerta dei servizi pubblici essenziali (scuola, sanità e servizi sociali) e la gravissima carenza infrastrutturale (deterrente per sviluppare impresa ed attrarre investimenti) hanno avuto negli ultimi anni come prevalente proposta politica tutte le forme di ammortizzatori sociali e risorse per finanziare opere senza progettazione e, ancor peggio, senza risorse e mezzi per la progettazione.

Nessun concreto strumento per la crescita endogena e la connessione infrastrutturale, nessun reale strumento per la crescita.

Ciò ha confinato il sud a restare sud ed aumentare il suo divario: un sud sempre più dipendente dalla singola proposta politica di assistenza e non invece impegnato in puntuali politiche mirate alla crescita (credito di imposta al sud, fiscalità di vantaggio, competence center, …).

E’ al Sud uno solo (a Napoli) dei 7 competence center, che sono il luogo per eccellenza di innovazione, attrazione investimenti e lavoro per i giovani.

La contrapposizione tra un Nord produttivo e connesso con il mondo (ma tartassato da iniquità fiscali dovute alla zavorra Sud) ed un Sud inerme ed assistito è stata la scusa per delegare ai fondi strutturali la responsabilità del mancato sviluppo del sud e orientare invece le risorse nazionali ad accrescere la competitività del nord.

Non ci si può aspettare dai soli fondi strutturali una ripresa del processo di sviluppo del Sud. Nonostante ingenti stanziamenti, il Sud cresce sempre meno: meno del passato, meno delle regioni del Centro Nord, meno delle altre regioni europee in ritardo di sviluppo.

Solo negli ultimi dieci anni la spesa pubblica è stata ridotta al Sud dell’8,6% mentre è stata accresciuta dell’1,4% al Centro-Nord; e ogni anno sono stati sottratti al Sud 61,5 miliardi di euro per essere trasferiti al Nord.

Per favorire strutturali e duraturi processi di crescita del Mezzogiorno è quanto mai doveroso non relegare il Sud ad essere la zavorra dello sviluppo del sistema Paese, ma motore di crescita del Paese attraverso una seria riflessione sul valore e ruolo dei giovani in questa crescita. I giovani che, in assenza di risposte, stiamo lasciando andare via.

Serve superare i gap in termini di infrastrutture, sistemi di logistica, politiche integrative di welfare, strumenti di incentivazione alla crescita e all’auto-impresa, politiche per creare vantaggio fiscale ad investire e ad assumere al sud, politiche per valorizzare le competenze locali per trattenere i giovani, misure per arginare lo spopolamento del Sud, misure per promuovere innovazione e la transizione digitale.

Al sud non servono stampelle, surrogati del lavoro, misure di assistenza, ammortizzatori che servono solo a mettere ancora in pausa lo sviluppo del sud aumentando il gap con il nord. Al sud servono i treni ad alta velocità e le autostrade a 4 corsie, le piattaforme logistiche, i competence center .

E men che mai serve quella insulsa generosa pacca sulle spalle quando ci dicono che tanto potremmo vivere di turismo; non di lavoro, ma di turismo. Un sud spopolato dai suoi cittadini e segregato per quantità e qualità lavorativa come potrebbe mai attrarre investimenti turistici che producano economia e occupazione per il territorio? Come può mai organizzarsi per un turismo di qualità che raggiunga i numeri delle canarie ?

Il costo che paga il Sud in termini di emigrazione dei nostri giovani non è solo in termini di sottrazione di capitale umano e di generatori di futuro ma è anche un costo diretto. Perché resta in carico al sud il costo sostenuto per crescere nelle famiglie e formare questi giovani.

Il Sud è parte integrante del sistema produttivo e sociale del Paese nelle sue aree più vitali e deve ripartire dalle sue “risorse endogene”, non da strumenti di mera assistenza o dall’abbaglio dell’attrazione di investimenti che è poi la forma moderna del colonialismo (di mera convenienza solo per l’investitore che quando raggiunge il suo break-even sbaracca).

I fondi strutturali sostituiscono ormai normalmente la mancata spesa ordinaria e con una percentuale crescente negli ultimi anni. La dimensione dei fondi strutturali, pur rilevante, è però pari a meno della metà del totale della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, e meno del 5% del totale della spesa pubblica.

Appare molto difficile che un intervento di tale entità possa essere di per sé sufficiente a mutare le sorti di un territorio così ampio come il Mezzogiorno, senza una profonda azione di potenziamento dell’intervento nazionale di “sviluppo” (infrastrutture, ricerca, istruzione, politiche economiche sociali), e di riqualificazione della spesa ordinaria.

Ci siamo concentrati sui fondi europei (che peraltro non finanziano più infrastrutture dal ciclo 14-20) e ci siamo distratti sul fondo sviluppo e coesione (che complessivamente muove più risorse la maggior parte della quali destinate alle infrastrutture).

Dobbiamo pretendere che sia rispettata la clausola della legge mezzogiorno che prevede di stanziare al Sud il 34% della spesa in conto capitale.

Per colmare il gap tra Nord e Sud serve infrastrutturare il Sud: richiamando alle loro responsabilità le società pubbliche nazionali (Eni, Ferrovie, Cassa Depositi e Prestiti) perche nei loro piani prevedano una quota proporzionale alla popolazione di investimenti al sud (e non solo per manutenzioni, ma anche per nuove opere necessarie al recupero del gap infrastrutturale).

Chiediamo poi politiche puntuali sui Servizi essenziali: che sono il campo in cui si distinguono i cittadini di serie A dai cittadini di serie B, e sempre più i cittadini del Nord da quelli del Sud.

Istruzione, Sanità, Servizi di Cura. Dove è sempre più evidente la faglia tra nord e sud. E che sono poi i temi alla base dell’emigrazione dei nostri giovani e causa dello spopolamento del Sud.

Scuola, Sanità, Servizi di cura : tutti ambiti dove – si faccia caso – è prevalente il potenziale di forza lavoro femminile. Tutti settori dove è prevalente il lavoro precario, ed in molti casi il lavoro sottoretribuito, se non in nero.

Tutti settori da cui si deve ripartire il confronto.