Lo dicono i numeri. Su 6 milioni di imprese registrate in Italia, solo 1,3 milioni sono amministrate da una donna. Su 78 Rettori a guida delle università italiane, solo 8 sono Donne; e su 12.303 professori ordinari le donne sono solo 2.952 (il 24 %).
Solo 1 donna ogni 10 uomini è manager in media nazionale, percentuale che si dimezza al sud. Se ancora guardiamo alla magistratura, sono donne oltre la metà delle posizioni, ma la percentuale precipita al 30% se si guarda alla posizioni a carattere direttivo.
Va malissimo tra le leadership politiche con donne relegate a posizioni subalterne. Se puntiamo l’attenzione sulle città: solo il 14,86% sono le donne sindaco in Italia, dato che scende al 9% se si guarda al solo Sud. E più cresce la dimensione più diventa grave il dato: solo il 5,6% dei comuni capoluoghi hanno una donna sindaco; dato peraltro peggiorato dal 9,26% ante ultime amministrative.
Ed infine, se guardiamo in prospettiva allargando la vista anche al sistema che alimenta il pensiero politico (think tank, fondazioni ed associazioni politiche) secondo Openpolis solo il 12% delle posizioni di responsabilità al loro interno è in mano a una donna. E lo stesso vale per le direzioni giornalistiche.
Eppure le donne sono il 51,3% della popolazione. Una maggioranza numerica che rimane però minoranza.
Un capitale che ancora viene sprecato in slogan e dichiarazioni di intenti ma che poi si scontra con scelte che – come dimostrano i numeri – dicono tutt’altro.
Il paradosso è che della leadership delle donne c’è invece davvero un bisogno enorme, a tutti i livelli.
E non solo per un principio di equità sancito dalla Costituzione. Se nei governi e nei parlamenti le donne scarseggiano, rinunciamo infatti alla necessaria doppia prospettiva sui provvedimenti di legge con il palese rischio di legiferare senza rispecchiare le esigenze della collettività intera.
Viceversa, organi esecutivi e legislativi in cui la componente di genere è equilibrata – e quindi pienamente rappresentativa – sono certamente meglio attrezzati a rispondere ai bisogni della società nel suo insieme.
E non vale solo per il settore pubblico. Anche per le aziende, una leadership davvero mista è soprattutto un buon affare. Laddove le donne hanno nei Consigli di Amministrazione delle società un ruolo decisionale (e non esprimono solo una presenza nel board, priva di deleghe decisionali, quindi) vi è un miglioramento netto di performance riscontrabile in termini di ritorno sul capitale e margine netto di profitto, ma anche una maggiore propensione all’innovazione. E non certo per una superiore capacità della donna a capo di un’impresa (non lasciamoci fuorviare dalla vischiosità di certi slogan che distraggono senza incidere veramente), ma perché l’impresa rispettando la parità di genere si apre al mercato con quella doppia prospettiva che permette di meglio centrare le scelte di mercato ed imprimere un adeguato indirizzo innovativo e non conservativo.
Eh già, perché la visione monoculare porta ad ancorarsi sull’esistente, a mantenere rendite di posizione, a non rischiare. A non intraprendere.
Rinunciare a dare ruolo alle donne significa preferire il verbo mantenere al verbo cambiare.
Ma le prime a interpretare correttamente il cambiamento devono essere proprio le donne affermandosi non solo ‘in quanto donne’ ma in quanto esprimono una leadership ben definita, in grado di dare una direzione al cambiamento.