L’attrito che ci mantiene in movimento

<Il più grande spreco nel mondo è la differenza tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare.>

In ogni scelta di cambiamento c’è sempre qualcosa che si oppone alla trasformazione tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare, o tra ciò che è e ciò che possiamo far accadere.

Come una forza resistente, un attrito che impatta e dà potenza o la toglie al cambiamento. Ed è proprio sull’attrito che dobbiamo lavorare.

In fisica esistono 2 diversi tipi di attrito: l’attrito statico e l’attrito dinamico.

L’attrito statico è quella forza che si oppone al movimento di un corpo che si verifica quando un oggetto poggia su una superficie piana ma non si muove. E’ dovuto a tutte quelle interazioni che avvengono tra le superfici dei due materiali a contatto. Queste interazioni causano una <resistenza> al movimento, che impedisce all’oggetto di spostarsi.

L’entità dell’attrito statico dipende dalle proprietà delle superfici in contatto, come la pressione (grado di radicamento nelle abitudini, tensione esplorativa), la composizione chimica (influenzabilità, spirito esplorativo), la temperatura (allenamento al cambiamento), la densità (rapporto tra singolo e collettività, tra professionista ed organizzazione).

Un esempio di attrito statico necessario è l’attrito tra le suole delle nostre scarpe e il suolo, che è poi è quello che ci permette di camminare e senza il quale perderemmo aderenza al contesto e scivoleremmo senza avere la guida del cammino.

L’attrito dinamico è invece quello che condiziona il movimento di un corpo su una superficie a sua volta in movimento. Questa forza di attrito dipende dalla velocità dell’oggetto e dalla ruvidezza delle due superfici in contatto.

Si tratta di due diversi tipi di attrito, davanti ai quali dobbiamo porci differentemente.

Facciamo attenzione alla differenza tra le due forme di attrito: il primo deve essere “vinto” per poter cominciare il nostro cammino; il secondo è funzionale al percorso e ci accompagnerà durante tutto il tragitto se sarà da noi ben gestito.

Quando l’attrito che ci condiziona nelle nostre scelte di cambiamento è di tipo statico, a frenarci è il legame tra noi e l’ambiente che ci circonda. Ed è allora sul contesto che dobbiamo lavorare e sulla nostra dipendenza da esso, sulle nostre abitudini, sulle nostre convinzioni, e sulle interazioni che abbiamo con quello che è oggi il presente.

L’attrito statico infatti ci fa stare fermi e ci impedisce di <immaginarci in movimento>. Basterà superarlo, quel famoso ‘primo passo che ci mette in cammino’, e poi camminando impareremo a percepire il divenire del contesto e scoprire che era la nostra percezione a frenarci. Camminando infatti si risolve https://cleolicalzi.it/2021/04/01/camminando-si-risolve/

Se invece a condizionare le nostre scelte è un un attrito di tipo dinamico, quando cioè il contesto intorno a noi muta velocemente, ma siamo noi resistenti a farlo, è sulla nostra consapevolezza che dobbiamo lavorare.

Siamo infatti dentro un problema di <pesantezza>. Proviamo allora a chiederci quanto siamo disposti a essere leggeri durante il nostro percorso di cambiamento, quanto siamo davvero pronti ad alleggerire il nostro bagaglio? https://cleolicalzi.it/2020/08/07/bagaglio-leggero/

Ed è da queste risposte che trasformeremo l’attrito in quella forza che ci permette di muoverci senza scivolare. E’ l’attrito infatti che permette alle ruote di un’automobile di avere aderenza sull’asfalto, permettendo di frenare, ma anche di partire.

Se facciamo attenzione agli attriti, avvertiremo che è l’attrito che ci mette in movimento e ci mantiene in equilibrio. E che senza non avremmo la necessaria <aderenza> ai cammini che intraprendiamo.

Impariamo a diventare agili, a scoprire che per restare in equilibrio, dobbiamo metterci in movimento.

Salto verso altro

Si era sempre saltato con uno stile che permetteva di tenere bene sott’occhio l’asticella.

C’era chi saltava con la sforbiciata, chi affrontava il salto con lo stile cosiddetto ‘ventrale’. Ma tutti saltavano tenendo lo sguardo sempre rivolto verso il basso, come se lo staccarsi da terra fosse un gesto involontario, e si volesse sempre mantenere un certo margine di sicurezza, il contatto anche solo visivo con la propria zona comfort.

Si andò avanti così per 72 anni, dal momento in cui il salto in alto divenne disciplina olimpionica. Sino a quando nel 1968 in pedana non si presentò un americano mingherlino, Richard Douhglas Fosbury, ritenuto sino ad allora un atleta senza alcun particolare talento.

Ed invece Dick Fosbury sorprese tutti, entrò in gioco contro ogni pronostico e con un guizzo cambiò le regole del gioco. Imponendo quello che da quel momento divenne <lo stile Fosbury>.

La rivoluzione di Fosbury fu nel cambio di prospettiva. Lo sguardo rivolto non più rivolto a cosa si lasciava, ma <verso dove si andava>.

Fosbury voltò le spalle al terreno e apri la sua visuale verso l’alto. Staccò la mente dai suoi limiti e la volse verso i suoi obiettivi.

Il suo era non solo un salto verso l’alto, ma <verso altro>.

Così, cambiata la prospettiva, non fu più l’asticella da superare il limite dell’orizzonte, ma a guidare il salto fu lo sguardo rivolto in alto, oltre ogni limite.

Mentre gli altri saltavano un ostacolo, il giovane Fosbury decise di osare e …volare oltre l’ostacolo (https://cleolicalzi.it/2021/05/20/il-nemico-che-ce-in-noi/).

Fosbury con il suo cambio di prospettiva, cambiò la storia del salto in alto.

Preparazione mentale, focus sull’obiettivo, rincorsa e acquistata la massima velocità, pronti a decollare verso la meta.

Era il coraggio dell’innovazione il suo talento. Quella sua tecnica, assurda, rivoluzionaria e accolta con tanto scetticismo, che ancora oggi resiste ed ha permesso di far raggiungere a tanti come lui altezze mai immaginate prima.

Lo stile Fosbury fu battezzato <Fosbury flop> la cui traduzione letterale è ‘fallimento’.

E richiama proprio il valore del ‘fallimento’ , dell’errore, come leva per cambiare prospettiva e salire di livello.

Fosbury osò, dove tutti lo sconsigliavano. Ma la sua forza fu proprio l’imperfezionismo (https://cleolicalzi.it/2020/07/12/limperfetta-meraviglia/).

Quello che per tanti era un errore nell’impostazione del salto, per Dick Fosbury era il cambiamento necessario.

Le probabilità di svettare nel salto per lui, atleticamente meno dotato di altri, non giocavano a favore, ma lui partì da questo per compiere quella che ancora oggi rappresenta la leadership nel salto in alto.

Un solo tipo di persone fallisce veramente: quelle che non rischiano. Gli altri innovano.

Fosbury come Bebe Vio ci insegna come se sembra impossibile, si può fare (https://cleolicalzi.it/2021/09/01/bebe-ed-il-superpotere-dei-sogni/).

Chi crede che l’impossibile non sia realizzabile e ripete le prassi sempre fatte dagli altri, va verso gli ostacoli <a pancia bassa>, rimanendo certo al sicuro da errori e fallimenti.

Ma così facendo non compierà mai quel <piccolo ordinario miracolo> che è rompere gli schemi, superare gli ostacoli e volare verso nuove mete. Con lo sguardo rivolto <oltre>.

Il pianoforte segreto

Il pianoforte segreto è un libro che racconta la storia della pianista cinese Zhu Xiao-Mei. Iscritta al conservatorio di Pechino, Zhu subisce la rivoluzione di Mao, durante la quale è vietato suonare i pezzi dei compositori occidentali.

Zhu è quindi costretta, suo malgrado, in uno spazio ristretto, dove deve applicarsi non a ciò che sente più vicino a lei e che può farle venir fuori il talento, quanto a ciò che <da altri> viene stabilito essere il suo percorso.

Ancora undicenne deve affrontare un esame di musica nella sua scuola. E si era sentita <inadeguata> e scoraggiata per la prova che <subiva> ma in cui non si sentiva libera di esprimere il proprio talento, non si era sentita libera di farlo con la musica che meglio le permettesse di esprimersi.

E per difendersi da chi non le permetteva di generare il suo talento aveva avanzato la scusa di avere le mani troppo piccole. Fu ‘scartata’ dalla giuria per questa sua imperfezione. Tutti tranne uno che prendendo la parola disse: <Cari colleghi, scusatemi, ma non sono d’accordo con voi. Trovo che la ragazza suoni molto bene e che soprattutto trasmetta qualcosa al di là delle note. Lasciamola suonare>.

Grazie a quell’intervento Zhu superò il suo primo esame ed entrò in accademia, dove incontrò il giurato Pan, da quel momento diventato il suo maestro che le disse <Ogni cosa ha due lati: uno positivo e uno negativo. Certo, hai le mani piccole e questo non ti faciliterà la vita in alcuni brani. Ma le mani piccole sono più veloci. Farai meraviglie con alcuni repertori. Vedrai, il negativo si dimostrerà positivo, come il positivo, a sua volta, può dimostrarsi negativo. Ho conosciuto un sacco di allievi che, poiché avevano mani grandi, non si sforzavano di lavorare. Una sfortuna, per loro>.

Il Maestro Pan aveva messo Zhu davanti al proprio imperfezionismo, aprendo il varco da cui farle generare il suo talento. Le aveva <aperto un mondo>.

Quel piccolo varco verso il mondo della consapevolezza spinse infatti Zhu a perseverare nei suoi studi, sino a lasciare il suo paese per trasferirsi a Parigi, dove finalmente libera di esprimersi con le note che meglio rispecchiavano la sua autenticità, sarebbe diventata una delle migliori interpreti al mondo delle difficilissime variazioni Goldberg di Bach.

Pan aveva aperto il mondo di Zhu, perché da lì potesse venir fuori il suo talento. La aveva <educata> a nutrire il proprio talento.

Educare ovvero <ex ducere>, tirare fuori il talento, il suo grado di libertà, aiutarlo a tracciare la sua strada in modo consapevole. Fornire gli strumenti per costruire la sua libertà di espressione.

Educare ha a che fare con la libertà dell’essere, con il diritto imprescindibile di ognuno di essere sé stesso, di esprimere sé stesso, di compiere il proprio percorso.

La leadership generativa non costruisce la via, ma indica la direzione dando gli strumenti per costruire un cammino che generi il talento del gruppo, che è qualcosa di molto di più del talento dei singoli.

Educare è allora <aiutare a generare>, ovvero svegliare il maestro interiore, quello straordinario che è in ciascuno di noi, e che spesso cresce proprio quando scopriamo la forza del nostro imperfezionismo.

Educare non è in-struire, cioè mettere dentro uno spazio vuoto nozioni necessarie solo ad affrontare delle singole prove. E’ invece mettere l’altro in condizione di sviluppare nuove consapevolezze, renderlo capace di scoprire dentro di sé ciò che serve al suo pieno sviluppo. Avviarlo alla sua strada.

La leadership allena all’autonomia, non a superare la singola prova.

Se così non fosse sarebbe come stabilire un limite alla crescita, partire dall’assunto che l’allievo non possa ‘superare il maestro’. Il bello dell’educare all’autonomia è proprio questo: rendere possibile generare conoscenza e talenti. Rendere possibile oltre ciò che l’educatore stesso vede.

Solo così le dita piccole possono diventare futuro aperto, perché saranno, se la ragazza le sentirà nella loro eccezionalità, l’occasione irripetibile per una maggiore maestria. Zhu aveva solo ostacoli davanti a sé, dalla dittatura che le imponeva lo spartito alla morfologia delle sua mani, ma trovo sulla sua strada un educatore capace di insegnarle a vedere oltre e a credere in quella nota unica che suona l’imperfezionismo.

Aggiorniamo il nostro software operativo

All’inizio di ogni nuovo anno, facciamo buoni propositi, impegnandoci a raggiungere nell’anno obiettivi importanti. Traguardi che sinora abbiamo trascurato. Ma dopo qualche settimana ce ne siamo già dimenticati e rimettiamo i nostri progetti di cambiamento dentro il cassetto.

Perché nel tiro alla fune tra cambiamento e resistenza, che qualcuno prova a ‘nobilitare’ chiamandola resilienza, prevale l’abitudine (la resilienza è uno stato dinamico e non statico https://cleolicalzi.it/2021/10/13/3334/).

Prevale il rimanere al sicuro ormeggiati in rada, invece di prendere il largo e sperimentare pensieri nuovi, percorsi diversi, sentieri di innovazione.

L’abitudine non è altro che un comportamento o un processo di pensiero divenuto ‘automatico’, ovvero che scatta non come scelta ma come reazione di una sequenza già sperimentata.

Un comportamento che quindi non passa attraverso nessun processo di formazione di una nuova consapevolezza. E che come tale produce, inevitabilmente, un risultato ripetitivo di qualcosa già acquisito.

Le abitudini sono abilità consolidate, in cui la guida anzichè al nostro lucido arbitrio è affidata al ‘pilota automatico’ (https://wordpress.com/post/cleolicalzi.it/1225).

L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza.

Per cambiare dobbiamo metterci noi alla guida. Dobbiamo decidere di farlo.

L’antidoto può quindi essere solo uno: la consapevolezza che nasce anche dal farsi domande, per rimanere connessi con il ‘momento’ e non invece intrappolati in un contesto di pensiero ed azione che magari erano giusti un tempo, ma che adesso sono superati.

Il nostro software interiore va periodicamente aggiornato. Altrimenti, esattamente come con i computer il sistema operativo delle nostre scelte non sarà più in grado di funzionare correttamente.

Laddove c’è un proposito di cambiamento, vuol dire che c’è un’abitudine da cambiare. Ed è da questa che dobbiamo iniziare. Dalla ‘piccola’ insidiosa abitudine.

Serve imparare a dis-apprendere, pensare ed agire al di fuori di schemi preconfezionati che ci sono familiari (e per questo ci danno la ‘garanzia’ di sapere maneggiarli) ed iniziare invece ad agire attraverso l’ascolto attivo, ricercando il valore aggiunto dell’intelligenza condivisa.(https://wordpress.com/post/cleolicalzi.it/1843)

Imparando a guardare alle cose da una prospettiva diversa. Con la bussola puntata verso il mare aperto per abbandonare la ‘rada delle abitudini’.

E serve soprattutto la motivazione al cambiamento. Perché è proprio la motivazione il carburante del cambiamento.

Iniziamo allora l’anno impegnandoci ad abbandonare qualche ‘piccola abitudine’ aggiornando il nostro sistema operativo come ci insegna l’approccio Kaizen (https://wordpress.com/post/cleolicalzi.it/1724) e diamo gas al cambiamento.

«L’abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a subir ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza e quando scopriamo di averla addosso ogni fibra di noi s’è adeguata, ogni gesto s’è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci». O.Fallaci

Essere liberi di scegliere: storia di una leadership antifragile

Spero di andare via lasciando la consapevolezza che si possa essere gentili e forti, che si possa essere un leader a modo proprio: un leader che sa quando è il momento di lasciare.”

Qualche giorno fa si è dimessa Jacinda Ardern, dal 2017 a capo del Governo della Nuova Zelanda e modello di leadership gentile, autentica e forte.

Leadership che ha dimostrato anche nell’annunciare le sue dimissioni, dicendo di aver perso quella motivazione necessaria per stare alla guida (“non ho più benzina nel serbatoio”) e per assumere ancora una così grande responsabilità.

Non più disponibile non tanto ad esserci, quanto ad esserci nel modo giusto.

Ecco la differenza nelle parole di Jacinta Arden: una leadership è tale quando fa delle scelte, che seppure all’apparenza possono sembrare di arresa esprimono invece la forza della consapevolezza e la potenza del sapersi mettere da parte per permettere che <accada il nuovo>.

Una leadership antifragile ed autentica che conferma ciò che aveva affermato nel momento del suo insediamento: <Siate forti, siate gentili>, lanciando così la sua idea di Leadership antifragile (https://cleolicalzi.it/2021/03/21/siate-forti-siate-gentili/).

La scelta di fare quello che in inglese si chiama “downshifting” (https://cleolicalzi.it/2023/01/10/downshifting-scalare-di-marcia/), un cambiamento verso il basso, non per abbandonare un compito ma perché quel compito si è concluso e si ha la consapevolezza che un ciclo si è chiuso. E si deve permettere che si svolga il futuro.

<Lasciare> non significa “tradire” il sogno del successo a tutti i costi. Significa invece riconoscere la finitezza di ogni fase ed avere la generosità e la capacità di <far accadere il nuovo>.

Vuol dire guardare avanti, e riconoscere che alla base della riuscita di ogni progetto serve quel carburante che è la motivazione ed il desiderio di realizzare (https://cleolicalzi.it/2021/05/25/costruisci-un-desiderio-condividilo-e-dagli-potere/).

Significa essere liberi e non prigionieri dei progetti altrui.

Alla base della generatività vi è proprio la capacità di saper lasciar andare (https://cleolicalzi.it/2022/05/14/generare-ovvero-saper-lasciare-andare/).

Lascio andare questo ruolo e così lo onoro: ne riconosco l’importanza e la responsabilità, e per questo termino il mio mandato e creo le premesse perché il mio lavoro cammini sulle gambe di chi assumerà adesso la guida. Significa volere il progetto, non il ruolo.

<Ero e resto parte della squadra>: cambia solo il ruolo in squadra. E sappiamo bene che come per essere un buon allenatore bisogna aver fatto gavetta in campo, così un allenatore che torna in campo conosce il gioco da ogni prospettiva.

Jacinda Ardern afferma una leadership autentica che rimarca la necessità di smettere di paragonare la propria storia a un modello ideale, smettere di inseguire un benchmark che non ci rappresenta.

Il vero valore aggiunto che ognuno di noi porta in ogni occasione sta nella storia unica che rappresenta: nessuna storia è lineare, il destino di nessuno è scritto prima che venga realizzato.

L’eterna implicita competizione con un predeterminato modello di perfezione che non esiste ci rende schiavi di un disegno che non ci riflette, non segue la nostra capacità di cambiare nel tempo, che è invece la nostra più grande ricchezza.

Scoprirlo e realizzare questa ricchezza è la forza della leadership antifragile (https://cleolicalzi.it/2021/07/30/creatori-di-possibilita/) che scopre proprio nella realizzazione del proprio imperfezionismo la sua strada (https://cleolicalzi.it/2022/01/17/encanto-la-forza-dellimperfezione/).

Che si concede il privilegio di poter <scegliere> cosa fare della propria vita. Di scegliere quali sono le tue autentiche priorità.

Leadership: visitare luoghi

Per Kouzes, <Una delle differenze fondamentali tra management e leadership è nell’etimologia dei due termini, è la differenza tra maneggiare e visitare luoghi.>

Ecco, la leadership va in esplorazione. Non si ferma a gestire ciò che già esiste, ma punta a rigenerare e costruire sempre nuovo valore.

La mentalità della leadership punta ad innovare, a rinnovare le prospettiva cercando sempre nuovi punti di osservazione.

La leadership è la guida che si assume la responsabilità di far vivere un’esperienza di crescita a tutto il gruppo. Con quella autorevolezza che riconosciamo a chi ci sa guidarci su terreni nuovi facendoci godere la meraviglia delle trasformazioni di paesaggio e vivere esperienze di crescita.

Non resta ferma su posizioni comode ma si inerpica per i sentieri meno battuti, cercando il punto ‘nuovo’ di osservazione, e laddove trova un passaggio che apre a nuove prospettive e che proietta su scenari capaci di generare crescita, si ferma e conduce il team a <visitare il luogo>. Invita a lasciare il luogo trasformato, arricchito di nuovo valore, contaminato da nuove prospettive.

Cambiando, se serve, l’itinerario del viaggio.

La mentalità della Leadership applica qualcosa che assomiglia al meccanismo di Google Maps: se qualcosa si frappone a cambiare i piani, un errore, un limite, un evento imprevisto, la mentalità della leadership <ricalcola il percorso>.

E riporta il gruppo su una traiettoria nuova. E’ proprio questa capacità di riprogrammare il viaggio che distingue la leadership, la capacità di rendere il viaggio stesso un’esperienza di crescita per sé e per il gruppo.

Visitare luoghi è ben diverso dal raggiungere destinazioni, perché non ha un itinerario prestabilito, che impedisce la creatività e la capacità di cambiare prospettiva, quando è necessario. Visitare luoghi apre gli scenari e crea spazio per innovare. E soprattutto, regala la possibilità di goderne l’esperienza che è l’essenza stessa del viaggio.

E così mentre il manager sale sul treno e si immerge nel suo laptop per ‘gestire’ il suo viaggio, la leadership guarda dal finestrino e si prende il tempo per godere dello scorrere del paesaggio, cogliendo quel ‘dettaglio’ da cui poi costruisce una nuova traiettoria.

Ciò che distingue un Leader da un capo è la capacità di innovare (Steve Jobs)

Downshifting, scalare di marcia

Quante volte abbiamo sperimentato – spesso senza averla intenzionalmente programmata – la capacità rigenerativa delle pause ? Fermarsi per ripartire con nuove idee e prospettive.

Downshifting, Scalare di marcia. Letteralmente “andare verso il basso” ma la giusta traduzione è “rallentare“, ovvero decidere di ridare valore al tempo. Ricercando un tempo di qualità, scegliendo di dedicare ad ogni attività il giusto spazio.

Rallentare per riprendere il cammino con la giusta andatura.

Significa <semplificare>, lasciando andare tutto ciò che ostacola la nostra trasformazione. Per imparare e far propria l’arte della felicità. Per riappropriarsi del presente e della propria vita senza proiettarsi in anticipo nel futuro.

Il significato del downshifting è nel lasciare accadere le cose, imparando a dare alle cose il ‘giusto’ valore. Ed il giusto tempo.

Per imparare a farlo proviamo a dividere le attività che scandiscono la nostra vita in 4 quadranti: in alto mettiamo le cose importanti ed urgenti, quelle che sono le priorità del nostro momento.

A seguire staranno le cose importanti ma non urgenti, che segneremo nelle nostre agende ma a cui sappiamo potremo dedicarci solo ‘avremo’ il tempo per farlo. Sarà il valore che diamo alla loro importanza – e il no valore che riconosciamo a quelle che seguono – che stabilirà la loro capacità di salire in cima.

Ci sono infatti a seguire le cose non importanti (per noi) ma urgenti (che hanno cioè una scadenza da rispettare). Di queste domandiamoci se sono veramente urgenti e se lo sono se sono veramente un compito che dobbiamo svolgere in prima persona, o se lo abbiamo avocato a sé per un’incapacità di delegare ad altri.

Ed infine nel nostro caleidoscopio di cose da fare ci sono quelle cose che sappiamo essere non urgenti e non importanti, ma stanno lì a ‘riempire’ le nostre agende e a impedirci di rallentare. E sono quelle da eliminare. Perchè sono quasi sempre le ‘scuse’ che ci diciamo per non affrontare le sfide veramente importanti.

Proviamo allora a rinominare i 4 spazi in cui abbiamo suddiviso la nostra agenda. In alto ci sono le cose ‘essenziali’, poi le cose ‘che possono creare valore’, poi ci sono gli spazi che dobbiamo avere la capacità di lasciare agli altri. L’ultimo quadrante è quello delle cose superflue. Chiamandole così ci verrà sicuramente più semplice eliminarle.

Il tempo Kronos ‘ esterno’ è quello degli orologi, dei calendari, delle scadenze da cui ci facciamo inseguire ed ha lo stesso scorrere per tutti. Il tempo ‘interno’, quello che ci appartiene e ci fa crescere, invece, è il tempo Kairos, che è il tempo di qualità, scandito dal valore che diamo alle cose.

Impariamo allora a ‘dilatare il nostro tempo’, trasformando il tempo Kronos nel tempo Kairos, che invece è il tempo ‘nostro’ in cui siamo noi ad avere il timone sulla direzione che diamo a ciò che decidiamo di fare.

Scegliamo cosa fare del nostro tempo, diamo noi il ritmo, e scopriremo che il tempo <recuperato> è proprio quello dell’ozio creativo quello che dà spazio anche alla felicità.

Prendiamoci allora le nostre pause, viviamole nella loro capacità generativa, diamo spazio a tempi che ci siamo negati, svuotiamo le agende dal superfluo. E scopriremo che è solo scalando di marcia, che si possono poi affrontare le salite.

Il volo delle aquile

Una leggenda popolare indiana dice che le aquile vivono fino a 70 anni, ma che intorno ai 40 anni, devono prendere una difficile decisione che decide sulla loro vita.

Dopo tanto volare, le ali dell’aquila, ormai invecchiate e pesanti a causa delle dimensioni raggiunte dal piumaggio, rendono complesso volare e impediscono all’aquila di vagare per scoprire il nuovo. Le unghie sono diventate così lunghe che non riescono più ad afferrare le prede di cui l’aquila si nutre. Ed il becco, che si è nel tempo allungato ed incurvato, non è più utile a trattenere le prede che riescono così a sfuggire.

Le aquile si trovano allora ad affrontare la mutazione del loro corpo che le rendeva prima le <regine del cielo>. E così imparano a conoscere i <limiti>. E scoprono significato ed il valore della loro forza.

All’aquila toccano decidere tra abbandonarsi e morire, o scegliere di affrontare un complesso processo di rinnovamento.

L’aquila che sceglie il cambiamento vola verso un nido sicuro tra le montagne vicino a un muro. Lì inizia a colpire con il becco sul muro con grande forza finché non riesce a strapparlo. Quindi attenderà la crescita di un nuovo becco, con il quale si staccherà uno per uno i suoi vecchi artigli. Quando i nuovi artigli iniziano a crescere, inizierà a strapparsi le piume consumate e darà la possibilità al nuovo piumaggio di spuntare.

E dopo tutti lunghi e dolorosi mesi di ferite, cicatrici e crescita, l’aquila riesce a fare il suo volo di rinnovamento, rinascita e celebrazione per vivere – rigenerata la sua ‘seconda vita’.

Non è in realtà vero che le aquile siano uccelli così longevi; vivono in realtà intorno ai 15-20 anni ma la storia narrata dalla leggenda popolare indiana è una buona metafora per parlare delle scelte difficili da affrontare e di come il cambiamento possa essere generativo.

La leggenda ci fornisce però l’esempio di come esiste nella nostra vita quel momento in cui <giunti nel mezzo del cammin di nostra vita> dobbiamo <scegliere> di rigenerare le nostre conoscenze, le nostre convinzioni, le nostre abitudini, le nostre connessioni, iniziare un processo di rinnovamento dei nostri ‘strumenti’.

Per farlo dobbiamo <disapprendere>, ovvero abbandonare convinzioni e ricordi, spesso cristallizzati in pregiudizi, il cui peso ci impedisce di rigenerarci e ‘volare oltre’ (https://cleolicalzi.it/2021/01/04/imparare-a-disapprendere-2/).

Solo liberi dal passato possiamo trarre vantaggio dal prezioso risultato che un rinnovamento ci porta sempre. E’ solo rimanendo fermi che si va indietro.

Per rigenerare dobbiamo imparare ad abbandonare (https://cleolicalzi.it/2022/05/14/generare-ovvero-saper-lasciare-andare/).

Mettere via il modo in cui abbiamo immagazzinato gli eventi e tenere con noi solo l’esperienza, la lezione che abbiamo imparato dai nostri errori fecondi (https://cleolicalzi.it/2021/09/09/errori-fecondi/).

Per mettere ordine, rinnovarci e riprendere il volo, dobbiamo prima riconoscere noi stessi, sapere chi siamo oggi (non chi siamo stati ieri), quali sono le nostre potenzialità oggi e soprattutto decidere verso dove vogliamo andare.

Dobbiamo scegliere non di adattarci al problema, ma usare il limite che ci si pone innanzi come il grimaldello per innescare il cambiamento generativo.

Quell’aquila che sceglie di rinnovarsi, ha davanti a sé nuove altezze. Mentre l’aquila che avrà accettato il consumarsi dei suoi talenti, resterà abbandonata a terra, persa <tra tutti i se e i ma> con cui avrà riempito di ostacoli la scelta di affrontare nuove sfide (il nemico che c’è in noi: https://cleolicalzi.it/2021/05/20/il-nemico-che-ce-in-noi/).

<Quando arriva una tempesta, tutti gli uccelli corrono ai ripari. Tranne l’aquila, che invece sceglie di volare sopra la tempesta. Quando la vita si fa tempestosa, possa il tuo Cuore volare alto come un’aquila! >(Madre Teresa)

Ripartire dai territori

Per innescare processi di sviluppo, che incidano in modo significativo e durevole sull’economia dei territori, bisogna cambiare radicalmente il modo di concepire la programmazione territoriale. Ripartendo dalla coesione sociale e dal coinvolgimento reale e sostanziale dei cittadini e dei portatori di interesse.

Ed è proprio sul concetto di coesione sociale – termine diventato il baricentro delle politiche europee e fulcro del Piano di Ripresa e Resilienza (ma altrettanto poco compreso e frainteso, come lo è un po’ sempre stato il concetto di “sostenibilità”) – che si gioca la partita dello sviluppo dei territori e delle comunità.

L’errore comune è considerare la coesione come un obiettivo, quando invece è un ‘metodo’.

La Coesione è infatti lo strumento attraverso il quale si persegue l’obiettivo dell’inclusione sociale, fondamento non solo delle politiche europee (in primis il Trattato di Lisbona, di cui tutti parlano ma pochi lo hanno veramente letto articolo per articolo) ma anche nella nostra Costituzione (art.3 che invita a rimuovere gli squilibri economici e sociali).

Se la coesione è il mezzo, il fine è allora quello di assicurare ad ogni persona la possibilità di vivere in modo sostenibile, cioè in modo armonico e in un sistema che garantisce pari opportunità e l’equilibrio delle scelte della comunità.

Attraverso lo strumento della coesione si persegue il fine di costruire la possibilità per le comunità di vivere tutte le dimensioni della propria vita: un reddito in media con quello degli altri, un’istruzione accessibile a tutti, l’accesso paritario agli strumenti di cura della persona (i servizi sociali e la sanità in primis). Si persegue ciò che dovrebbe essere il fine ultimo della politica: la giustizia sociale.

Attraverso la coesione si costruisce per tutti la libertà di scegliere dove vivere, in contrasto con la tendenza alla depauperazione dei territori cosiddetti marginali che tali sono solo per dotazione dei servizi, realizzata da decenni di politiche non condotte attraverso lo strumento della coesione ma della parcellizzazione leva di facile consenso.

La coesione è allora la realizzazione del concetto di comunità dove ognuno di noi è messo in relazione con tutti gli altri. Ed ognuno è pedina fondamentale dello sviluppo.

Perseguire l’obiettivo della inclusione sociale attraverso il metodo della Coesione vuol dire allora “realizzare Comunità” e stabilire forti relazioni territoriali che garantiscano la sostenibilità dello sviluppo. 

Significa mettere le Persone al centro del progetto di sviluppo. Significa avvertire che la loro emarginazione è la tua sconfitta, è la sconfitta della tua cultura, della tua comunità. 

Per questo il termine coesione si riferisce alla densità delle relazioni umane, ma anche al metodo con cui si persegue lo sviluppo, quello sviluppo che fa crescere le relazioni e che deve fondarsi su una partecipazione democratica e condivisa e sulla responsabilizzazione attiva di tutti i soggetti che rappresentano le istanze del territorio.

Il metodo della coesione è il metodo del confronto fra tutti i soggetti, della costruzione di coalizioni orizzontali, fra Comuni, imprese, cittadini organizzati.

Sono stati spesi molti soldi, interi cicli dei fondi strutturali e del fondo di Coesione per fare cose che non hanno lasciato il segno: al massimo hanno fatto spesa ma non hanno mai cambiato la direzione della curva di decrescita dei territori.  Da un lato, il peggioramento dei servizi fondamentali – scuola, salute, mobilità – e dall’altro la mancanza di capacità di liberare forze innovative, che consentirebbero di valorizzare questi territori.

L’impalcatura metodologica della strategia Aree Interne, ad esempio, ha sperimentato un un paradigma progettuale innovativo, volto ad evitare che si tirassero fuori dal cassetto progetti già pronti e facilmente cantierabili, ma destinati con altrettanta facilità a non creare sviluppo.

Ha invece spinto ad impostare un processo per cui ogni area si è prima dovuta interrogare sul proprio futuro e ha poi ha dato la parola alle comunità, invitando ai tavoli e ascoltando i soggetti rilevanti, i portatori di reale interesse, che hanno liberato idee e proposte, che spesso già c’erano ma erano tenute in disparte. Perché il metodo della programmazione dall’alto impedisce di leggere i bisogni del territorio.

Quando parliamo di sviluppo dovremmo allora imparare dal metodo della coesione che ha avviato nei territori una stagione nuova, in cui si mettono da parte gli estri creativi, i personalismi, e soprattutto le progettualità ‘bandiera’.

E lavorare invece attraverso la mobilitazione di intelligenza collettiva a realizzare comunità. Perché senza essa, non può esserci né ripresa, né resilienza.

Io la mia parte continuerò a farla

Sono sempre due le scelte possibili nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo oppure assumersi la responsabilità di essere parte del cambiamento.

Non mi piaceva la direzione che aveva preso la ‘politica’ sempre più distante dall’economia reale, dal bisogno dei cittadini, dai territori. Incapace di dare risposte ai divari, ai disagi, alle emergenze. Brava a recriminare ma scarsa nell’agire.

La mia scelta di impegno in politica è maturata dentro questa consapevolezza. È in trincea, nell’offrire generosamente la propria disponibilità a far parte del cambiamento, che si fa politica.

Non ci si candida solo ‘per essere eletti’: lo si fa per contribuire a qualificare il risultato offrendo all’elettorato una proposta nuova.

L’obiettivo condiviso con la squadra (fuori dagli apparati partitici, dalle alleanze ‘stagionali’ e dalle rivendicazioni di parte) è stato sempre chiaro: provare a fare la differenza mettendo in campo ciò che è la mia storia professionale. Offrendo competenza e metodo e proponendo un nuovo modo di fare politica: sui contenuti e non sulle contrapposizioni.

Nel pochissimo tempo di durata di questa competizione elettorale ho fatto l’unica cosa che si poteva fare: radunare sempre più persone attorno a questa idea. Animati da quella speranza che mette insieme valori e passioni. Farli tornare a partecipare alla politica.

Per questo voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno dato fiducia, per avermi fatto crescere dentro. A tutti voi devo nuove consapevolezze.

Sento la responsabilità di continuare a cercare risposte concrete alle domande che mi avete posto. E non mancherò di farlo, con immutato impegno e passione. Insieme a voi.

Voglio ringraziare le tante persone che mi hanno accompagnato in questo percorso guidandomi in una esperienza che mi ha profondamente segnato e insegnato il senso importante del camminare insieme.

È solo il primo passo ma è un cammino che vuole contribuire a rigenerare la politica. Consapevoli che quel 51% di astenuti ci chiede di contribuire ad un nuovo modello di fare politica: tornando con umiltà tra la gente, ricostruendo il rapporto con le comunità territoriali.

Verranno i momenti per fare le necessarie analisi degli errori commessi. Ma per farlo si riparta dall’umiltà che è la dote che deve avere la Politica. L’umiltà di riconoscere di non essere portatori di verità assolute perdendo il contatto con le comunità.

Si sono fatti tanti errori, sulle scelte fatte, sui veti messi, sulle alleanze non realizzate, sul dare più importanza al 26 settembre che non al 25 settembre, più importanza alle rivendicazioni che alla costruzione di un progetto comune che desse senso alla comunità politica. Si riparta dall’umiltà e dalla capacità di ascolto, l’una indissolubilmente legata all’altra.

Io la mia parte non smetterò di farla.

Ritroviamo lo sguardo lungo e la capacità di confronto che deve essere cifra della buona politica. Riprendiamo il contatto con quel 51% che ci ha detto: basta non ci credo più. E rendiamoci credibili ai loro occhi con le azioni, non con gli slogan.

Il meglio deve ancora venire

Come ogni anno, mi piace ‘celebrare’ il giorno in cui sono nata scrivendo sulla gratitudine.

Perché l’unico modo che conosco per contare gli anni è dare valore ad ogni giorno vissuto.

E a tutto ciò che non mi ha semplicemente fatto diventare più grande, ma mi ha fatto <crescere>. Tra gli effetti (non secondari) della gratitudine c’è che la parola invecchiare viene sempre sostituita dalla parola crescere).

Ringrazio quindi tutti i miei inciampi perché mi hanno reso la persona che sono oggi, tutte le mie incertezze perché è su di loro che si fondano le mie sicurezze di oggi, tutte le scelte che ho fatto perché hanno reso possibili i miei divenire, tutte le persone che mi hanno allargato lo sguardo perché senza sarei rimasta sempre ferma.

E quest’anno per celebrare la gratitudine verso la vita e verso la Persona che sono diventata ho scelto la poesia di Wisława Szymborska <Nella moltitudine>.

Perché nello spegnere una per una le candeline (i riti sono importanti, ce lo ha insegnato il Piccolo Principe di Saint Exupery, lettura che andrebbe ripresa soprattutto nell’età matura) voglio ricordare a me stessa la bellezza di provare sempre ed ancora stupore ovvero meraviglia.

Perché la meraviglia significa <sentire> e sentire il valore della vita.

<Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile come ogni caso.

In fondo avrei potuto avere altri antenati,
e così avrei preso il volo da un altro nido,
così da sotto un altro tronco sarei strisciata fuori in squame.

Anch’io non ho scelto, ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno molto meno a parte.
Qualcuno molto meno fortunato, allevato per farne una pelliccia, per il pranzo della festa, qualcosa che nuota sotto un vetrino. Un albero conficcato nella terra, a cui si avvicina un incendio. Un filo d’erba calpestato dal corso di incomprensibili eventi.

Uno nato sotto una cattiva stella, buona per altri. Se al mondo fossi venuta nella tribù sbagliata e avessi tutte le strade precluse? La sorte, finora, mi è stata benigna. Poteva non essermi dato il ricordo dei momenti lieti.

Poteva essermi tolta l’inclinazione a confrontare.

Potevo essere me stessa – ma senza stupore, e ciò vorrebbe dire qualcuno di totalmente diverso.>

Buona vita a me e alla moltitudine di me che ancora devo diventare.

Un’eredità importante: essere parte

Le toccanti parole di Alberto Angela sul padre Piero ci insegnano che abbiamo una vita. Sta a noi decidere se e quanto viverla.

<Grazie per essere venuti. Ringrazio voi che siete qui e ringrazio chi è a casa e partecipa, ringrazio anche i media, la stampa, i tv. Da collega vi dico che avete fatto un lavoro molto corretto, di tatto, molto professionale. Non è facile per me questo discorso, di solito sono abituato ad andare a braccio ma in questa situazione mi capirete. È un discorso difficile: penso che le persone che amiamo non dovrebbero mai lasciarci però accade.

Vorrei partire dall’ultima cosa che ha fatto papà. Quel comunicato che tutti avete letto, l’ultima cosa fisicamente che ha detto è stata quella, con poche forze. Mia sorella e io l’abbiamo trascritto. Se voi lo guardate non è un discorso ufficiale: è come qualcuno che parla agli amici. Qualcuno che a fine vacanza dice “vabbè io vado”.

C’è molto affetto, amore, verso tutti.
È stata anche una persona – lo dico da figlio e collega – a unire ma non a dividere pur mantenendo le sue opinioni ferree. Una dote difficile da trovare. Il suo stile, il suo tatto lo conoscete tutti, ma la cosa bella che ha colpito tutti noi della famiglia è stato vedere questi messaggi che arrivavano e che non erano pieni di dolore o sofferenza ma di amore, che è un sentimento. Ho notato solo questo. È stata una cosa che mi ha molto colpito. Un sentimento che si trasforma in valore e i valori sono eterni. È questo il miglior vestito per papà, per il viaggio che farà.

Lui ci ha insegnato tante cose con trasmissioni, libri, ha usato tutti i media per divulgare. L’ultimo insegnamento l’ha dato non con le parole ma con l’esempio: mi ha insegnato in questi ultimi giorni a non avere paura della morte, che è la paura di qualsiasi essere umano. L’ha attraversata con una serenità che mi ha sconvolto, che mi ha colpito. Mai visto in mezzo allo sconforto o alla tristezza. Ha fatto una quantità di cose e questo è uno dei motivi per cui se n’è andato soddisfatto. Ha attraversato quest’ultimo periodo con una razionalità, come se fosse quasi una missione Apollo.

Quando ha capito che era ormai arrivato il suo tempo ha fatto le sue ultime trasmissioni e pure un disco jazz. Aveva una forza incredibile. Ha fatto un discorso ai familiari e dopo 24 ore che l’ha fatto se n’è andato. Mai vista una cosa cosi. Lo dico come figlio e collega giornalista. Aveva un approccio alla vita razionale, scientifico, e di amore, di come la vita dovrebbe essere vissuta.

Ho avuto la sensazione di avere Leonardo da Vinci in casa. Papà amava ripetere un suo aforisma: “Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire”. Lo ripeteva e credo lo abbia interpretato fino alla fine.

Per lui era importante avere una vita colma, era un insegnamento per tutti noi. Riempire la vita, amare tutte le passioni come ha fatto lui. Anche se da torinese sembrava molto riservato c’era un fuoco dentro di lui. A mio modo di vedere lui continuerà a vivere attraverso i libri, le trasmissioni, i dischi jazz. Continuerà a vivere in tutti quei ragazzi che cercano l’eccellenza, con sacrificio. Sarà vivo in tutte le persone che cercano di unire, di assaporare la vita. Una persona scientifica ma con il senso dell’umorismo grandissimo. Era bravo in tutte le cose, persino nel disegno. Una mente che, ancora adesso, mi sorprende.

L’eredità che ci lascia è importante: non è un’eredità fisica ma di atteggiamento nel lavoro. Anche io cercherò di fare la mia parte.>

La scelta consapevole di non sapere tutto

Quando ci sentiamo sicuri delle nostre competenze, forti nelle nostre abilità, ci fermiamo. E invertiamo inevitabilmente la rotta della nostra crescita.

La leadership fa del continuo ri-generarsi il suo punto di forza. La leadership ha infatti consapevolezza della limitatezza del suo sapere acquisito rispetto alla sommatoria di conoscenze che servono per costruire rotte di futuro.

La capacità di dis-apprendere (https://cleolicalzi.it/2021/01/04/imparare-a-disapprendere-2/) dipende proprio dalle risposte che ci diamo rispetto alle nostre scelte di ignoranza, alle domande che non ci facciamo per restare ben ancorati nelle nostre comfort zone.

Ed invece la crescita ha bisogno di domande. Ma ha bisogno delle domande giuste. Domande su cui costruire futuro, e non domande che guardano al passato e che cercando di analizzare in modo anche ossessivo azioni e percorsi che non possono più essere modificati. Quei ‘perché’ che servono solo per farci rimanere fermi.

Dobbiamo invece farci le domande giuste e imparare ad ascoltare gli altri, per dare nuove prospettive alle nostre scelte.

Ascoltare l’altro vuol dire riconoscere di non sapere ‘abbastanza’, essere consapevole delle proprie incertezze, dei propri dubbi e riconoscere che la complessità del divenire va affrontata non dando mai per finito il proprio processo di crescita.

<Sapere di non sapere>, come diceva Socrate, significa sapere di non sapere <abbastanza>. Solo così ci apriamo al cambiamento. ( https://cleolicalzi.it/2021/10/20/so-di-non-sapere-tutto-la-ssaggezza-della-leadership/)

Questa forma consapevole di ‘ignoranza’ è una scelta che ci mette su una strada fertile in cui ci liberiamo di tutti quei pensieri, atteggiamenti, abitudini che non ci permettono di crescere. In cui alleggeriamo il nostro bagaglio di conoscenza.

Per crescere serve cominciare a osservare, ad ascoltare, a leggere le cose con nuovi filtri di sapere. Serve lavorare sulla fiducia perché è proprio la fiducia – l’affidarsi al sapere di altri – che costruisce ponti verso nuovi saperi.

Chiudersi nella ‘finitezza’ del proprio sapere, invece blocca il flusso di creatività ed attiva i sensori dell’autosabotaggio perché mette in continua sfida con sé stessi in un circolo vizioso che autolimita. (https://cleolicalzi.it/2021/05/20/il-nemico-che-ce-in-noi/)

Impariamo allora a perdere – ma consapevolmente – qualcuno dei nostri riferimenti, quelli che sono stati superati dal divenire, che sono stati ‘consumati’ dalle scelte fatte e dalle cose accaduta.

Ed ‘indossiamo’ nuova conoscenza: riappropriamoci di un nuovo stile se necessario, mettendo in discussione – se serve – chi siamo e chi siamo stati. Per fare spazio al <chi saremo>.

Nel rinunciare alla certezza del sapere, mettiamo in gioco il nostro imperfezionismo, che è la nostra parte più autentica quella in cui si innesta la forza generativa della crescita. (https://cleolicalzi.it/2022/01/17/encanto-la-forza-dellimperfezione/)

Sapere di non sapere sviluppa il protagonismo delle scelte. Innesca in noi invece la voglia di cambiare, il desiderio di essere parte attiva rispetto alla nostra crescita, riconoscendo che vi è davanti a noi un cammino di crescita da percorrere, ed assumendoci la nostra parte di responsabilità nel cambiamento.

Tu chiamale se vuoi Emozioni

<A volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni.> (A.Baricco)

L’emozione, dal latino emovère, muovere fuori, è un moto interiore, che smuove qualcosa da dentro di noi portandola verso l’esterno e che ci spinge a compiere un’azione, a mutare i nostri comportamenti abituali.

E’ quella miccia che innesca un processo di consapevolezza che accende in noi il desiderio di cambiare.

E’ la capacità di rileggere le cose attraverso un filtro che blocca il flusso razionale e permeato da pre-giudizi ed apre invece il flusso che coglie nell’empatia la chiave di accesso alle cose ed alle persone.

Non ci sono emozioni giuste o sbagliate: ci sono invece emozioni che bloccano o stimolano la nostra crescita. È opportuno allora accogliere le emozioni e percepirle come una guida rispetto alla nostra crescita.

Ma attenzione a non scambiare l’emozione per una ‘dote innata’ del nostro essere. Anche le emozioni sono scelte di consapevolezza, perché possiamo per essere <mossi fuori> dobbiamo esserne consapevoli, essere quindi <dentro le nostre scelte>.

Le emozioni non sono estemporanee. Sono invero le risposte che diamo alle cose che accadono. Sono le chiavi della nostra reattività, che ci danno l’indicazione su come affrontare le situazioni.

Le emozioni hanno infatti il grande potere di guidare le nostre decisioni e i nostri comportamenti e orientare l’attenzione su un obiettivo specifico.

Quando non vengono riconosciute come risorsa possono invece diventare ostacoli nel raggiungimento dei propri traguardi.

Non sono competenze ma necessitano di allenamento per riconoscerle e saperle ‘maneggiare’.

E’ l’intelligenza emotiva la competenza, ovvero l’abilità a conoscere le nostre emozioni e indirizzarle per agire dentro le nostre emozioni (conoscenza di sé ed autenticità) ed attraverso le nostre emozioni (connessioni con gli altri).

Imparare il linguaggio delle emozioni implica la fatica di educarsi a riconoscersi negli altri e a conoscere gli altri dentro di sé.

Le emozioni sono allora modi di essere che nutrono un nuovo agire che va oltre quei muri che erigiamo quando facciamo prevalere gli aspetti più ‘logici’ del nostro pensare, muri che edifichiamo davanti a qualsiasi sollecitazione di cambiamento.

Emozionarsi significa liberare energie ‘umane’ abitano dentro di noi, e ci rendono umani. Significa accogliere le nostre imperfezioni e costruire intorno ad esse la nostra forza. Facendo nostra la lezione dell’antifragilità.

L’emozione è la chiave per l’innesco di connessioni generative.

Esplorare le nostre emozioni ci porta allora a crescere ma anche a rendere autorevole la nostra leadership. Per <guidare> gli altri dobbiamo infatti prima essere capaci di guidarci alla conoscenza di noi stessi, intraprendendo quel viaggio dentro di noi che ci riporta alla nostra autenticità.

Empowering Leadership

La leadership deve dimostrarsi in grado non solo di guidare ma anche, e soprattutto, di orientare e motivare la squadra.

Deve essere capace di far emergere i talenti più competenti e costruire su di essi una direttrice di futuro (https://cleolicalzi.it/2022/03/02/che-cose-il-talento/).

Essere capace di far maturare in ogni luogo dell’organizzazione il convincimento di essere parte integrante del progetto. Di essere un ingranaggio fondamentale per la riuscita del tutto.

Il collante che dà forza a questa capacità della Leadership è avere uno scopo forte, un purpose, che deve andare sempre oltre la dimensione personale e che faccia da collante nell’organizzazione e fornisca al gruppo un ‘vocabolario’ ed una direzione comune.

Lo scopo comune è infatti il più grande attivatore di motivazione. Perché fa sentire tutti parte della soluzione.

Costruisce respons-abilità diffusa (https://cleolicalzi.it/2021/03/29/respons-abilita/), mobilitando intelligenza collettiva e non invece un pensiero monoculare dominante, inevitabilmente destinato a consumarsi non essendo alimentato dal confronto e dalla dialettica generativa.

Il modello organizzativo verticale certamente non rende in termini di generatività, perché impedisce ai talenti di esprimersi e di realizzare valore per l’organizzazione. Al contrario un’organizzazione orientata in relazione allo scopo comune ed alle connessioni funzionali a realizzarlo permette di abbassare la piramide organizzativa, allargando la base decisionale.

Vengono così create le condizioni necessarie allo sviluppo di una leadership diffusa capace di mettere in moto tutta la potenzialità dell’intelligenza collettiva.

Il concetto di empowerment – creazione di forza – sottolinea proprio la messa a punto di quei fattori che promuovono vantaggio competitivo dalle connessioni tra i diversi talenti dell’organizzazione.

La Empowering Leadership non pone sé stessa al vertice del proprio gruppo, e non impone una sua visione quale ‘pensiero unico’ ed anzi attiva il pensiero laterale in grado di generare nuove idee.

Non tenta in tutti i modi di imporre la sua visione, di persuadere e convincere gli altri a fare ciò verso cui manifestano resistenza e davanti al quale oppongono alternative, ma si presenta invece come un allenatore, un coach che investe sul talento, nel senso che costruisce quelle relazioni in grado di aiutare a liberare la intelligenza e la creatività.

La Empowering Leadership funziona da generatore di nuove leadership per realizzare consapevolmente ciò che va fatto al meglio.

L’empowerment richiede attenzione, connessione, integrazione e focalizzazione. Ma soprattutto richiede pazienza, umiltà e generosità (https://cleolicalzi.it/2021/06/04/pazienza-gentilezza-umilta-la-forza-della-leadership/).

Perché la forza della Leadership sta proprio nella capacità di generare.

Prima di giudicare una persona cammina tre lune nelle sue scarpe

Una delle doti di leadership maggiormente fraintesa è l’empatia. Scambiata per la capacità di entrare con facilità in relazione con gli altri muovendosi su terreni similari, viene considerata erroneamente una qualità e non una competenza.

Per Daniel Goleman, il padre delle teorie sull’intelligenza emotiva, è la “𝑐𝑎𝑝𝑎𝑐𝑖𝑡𝑎̀ 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑖 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖, 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑡𝑖𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖, 𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑒𝑠𝑡𝑖𝑟𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑒𝑚𝑜𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖, 𝑡𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒, 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑙𝑖”.

L’empatia è quindi la capacità di accorciare le distanza: comprendere ed entrare in connessione con le emozioni altrui per costruire insieme un <cammino comune> anche se nasce da prospettive differenti.

“Camminare nelle scarpe” degli altri significa allora provare ad entrare in contatto con la sua autenticità, con la sua storia, ma anche con le sue paure, le sue insicurezze.

Significa togliere il filtro cognitivo del giudizio e interagire attivando il potere dell’intelligenza emotiva per provare a capire davvero chi abbiamo davanti per capirlo meglio e riuscire a stabilire una connessione, una relazione che permetta di generare valore. Per farlo bisogna lavorare su due sistemi fortemente interagenti tra loro: la fiducia e l’autorevolezza.

La capacità di “mettersi nei panni degli altri” e di entrare in risonanza con loro è alla base della costruzione di relazioni generative. L’empatia rimuove i blocchi causati da pregiudizi e incomprensioni e permette di instaurare relazioni trasparenti e positive.
Entrare in empatia apre potentissime porte di accesso generative di valore: se le persone si sentono ascoltate, capite e valorizzate, saranno più stimolate e motivate al lavoro. E a loro volta si assumeranno la responsabilità del risultato.

L’empatia non mette in contatto due persone ‘sommandone’ le idee, ma crea le condizioni perché possano essere moltiplicate. Questo presuppone quindi che il valore delle nostre idee aumenta se non diminuiamo il fattore moltiplicativo, ovvero se siamo capaci di valorizzare i percorsi di consapevolezza dell’altro.

La leadership ricerca la connessione empatica, sapendo rimanere comunque autentico nelle sue posizioni.

L’empatia deve però essere equilibrata. Non deve diventare un eccesso.

L’empatia generativa rispetta infatti i confini delle emozioni. Crea connessioni senza mai travalicare i limiti.

La connessione emotiva deve evitare di farci rimanere intrappolati o di renderci ostaggio emotivo degli altri. Deve invece aiutarci a tirar fuori talenti che tenevamo sopiti.

Così intesa l’empatia diventa una delle leve generative della leadership necessaria anche per sviluppare il senso di squadra, mettendo in connessione i diversi valori del gruppo.

Creando anche lo spazio per generare nuovi progetti, sollecitando quella potentissima forma di creatività che è nell’intelligenza collettiva, l’idea nuova che nasce dal confronto tra le diversità di prospettive e che viene condivisa attraverso un sistema rinforzato dall’empatia.

Essere felici è liberare la creatura che vive in ciascuno di noi

Da Papa Francesco un ‘manifesto’ della leadership: l’invito a mettere in gioco tutti i talenti imparando ad avere quella che in gestione della leadership si chiama ‘mentalità di successo’.

Avere il ‘giusto mindset’ contempla, tra le altre cose, la capacità di apprendere lezioni dai fallimenti, di lavorare sul proprio imperfezionismo.

Ma soprattutto la capacità (ed il coraggio) di essere felici. Perché è acquisendo una mentalità felice che si riesce a vivere in pienezza la propria autenticità e sviluppare la capacità di generare valore.

La mentalità di successo fa leva sulla gratitudine e sulla consapevolezza delle cose che accadono. Solo lasciando spazio alla nostra autenticità, daremo al nostro talento la possibilità di esprimersi in ogni sua forma.

<Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticare che la tua vita è la più grande azienda al mondo. Solo tu puoi impedirle che vada in declino. In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano. 

Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.

Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.

Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato. Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi. Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.

Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia. È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un’oasi nei recessi della nostra anima.

È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita. Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.

È saper parlare di sé.

È aver coraggio per ascoltare un “No”. È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.

Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.

È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.

È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.

È avere la capacità di dire: “Ti amo”.

Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice …

Che nelle tue primavere sii amante della gioia.

Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.

E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.

Poiché così sarai più appassionato per la vita.

E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta.

Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.

Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.

Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.

Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.

Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza

Non mollare mai ….

Non rinunciare mai alle persone che ami.

Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!>

Papa Francesco

Dialogo interiore: imparare a parlare a sè stessi

<Siamo ciò che pensiamo: i nostri pensieri e la nostra costruzione della realtà  influenzano inevitabilmente le nostre azioni.>

Pensiero e linguaggio positivo sono armi importanti della leadership, ma come tutte le competenze hanno bisogno di allenamento, di pratica, e persino di corroborarsi negli errori per potere dare loro i frutti.

La leadership deve infatti sapere imparare a confrontarsi con i propri obiettivi, entrando nel <giusto dialogo> con loro. Deve essere autentica.

La generatività e la capacità di incidere sulle cose nasce infatti dalla consapevolezza, e dalla capacità di lavorare sul pensiero positivo che si apprende con l’allenamento a <dirsi le giuste cose>.

Il self talk – il dialogo interno – è uno strumento molto potente, se lo sappiamo usare, per crescere in consapevolezza, costruendo quelle basi che ci sono necessarie per costruire la nostra forza interiore e liberare i nostri talenti.

Il linguaggio è infatti una leva fondamentale in grado di agire sull’inconscio, sul pensiero e, a catena, sugli stati d’animo, sulle azioni e quindi sui risultati.
Questo vale sia in positivo che in negativo.

Quello che dobbiamo imparare a fare è ridurre i dialoghi in negativo, silenziando quegli elementi di distrazione (rumori) che conducono all’autosabotaggio (https://cleolicalzi.it/2021/05/20/il-nemico-che-ce-in-noi/), ed amplificare l’audio nei dialoghi in positivo.

Frasi o immagini positive possono infatti aiutare ad ottimizzare una prestazione, a concentrarsi maggiormente sul focus reale, a migliorare la percezione che si ha di sé stessi dando potenza ai propri talenti.  

Viceversa, se i nostri dialoghi interni sono troppo critici, negativi o pessimisti possono avere un effetto ostacolante e produrre il fenomeno della profezia che si autoavvera.

Non siamo abituati al dialogo interno, anzi spesso lo sfuggiamo per concentrarci invece sulla comunicazione esteriore; ma le due cose sono correlate ed interagenti e solo insieme permettono di ottenere sempre migliori risultati nella vita.

Il Self talk – il dialogo interiore con la parte più autentica di noi – ci aiuta a superare tutto questo e ci fa rimanere focalizzati sull’obiettivo prefissato, sviluppando quella motivazione che costruisce il risultato.

Crederci e sostenersi ricorrendo al pensiero positivo serve a lavorare sul ‘focus’, ovvero sull’essenziale, senza lasciarsi distrarre dai ‘rumori’ che inneschiamo per sottrarci alle sfide.

Il dialogo interiore invece punta a massimizzare l’attenzione sugli obiettivi e ad amplificare la motivazione guidandoci nella giusta direzione e sostenendoci ad abbandonare la comfort zone.

Il dialogo interiore facilita il proprio percorso dal nostro sé attuale al nostro sé più autentico. Un percorso in cui dobbiamo farci guidare connettendoci con noi stessi e con le sfide che affrontiamo e lavorando quindi sui processi di consapevolezza.

Il focus deve essere sempre sul ‘qui ed ora’. Mai riflesso al passato, ripercorrendo mentalmente tutte le volte che si è fatto in un modo e si è ottenuto per conseguenza un certo risultato. Dobbiamo invece agire estrapolando il ricordo dal contesto e imparando invece a sviluppare la lezione dal passato e lavorare sulla fecondità dei nostri errori (https://cleolicalzi.it/2021/09/09/errori-fecondi/).

Il focus non deve nemmeno essere proiettato ad futuro ‘distante’, spostando l’attenzione dalla prestazione sul prossimo obiettivo e aggiungendo al contesto tutte quelle variabili futuristiche che provano a immaginare cosa potrebbe accadere ‘dopo’, ma sfuggendo di fatto da quello che <sta accadendo ora> o ancor di più da quello che tocca a noi far accadere.

Proiettare al futuro il dialogo trascura infatti una variabile importante: il nostro sé in divenire, ovvero ciò che potremo diventare attraverso la sperimentazione dei nostri ‘qui ed ora’. Attraverso la trasformazione generativa dei nostri errori.

Attraverso il dialogo interiore impariamo a sviluppare l’autoinduzione dello stato emotivo desiderato: autocontrollo, attenzione, concentrazione, energia, autostima, carico motivazionale positivo, gestione ottimale delle proprie risorse, sviluppo dei propri talenti.

E costruiamo quell’habitat mentale, quella ‘giusta narrazione di sé’ che ci permette di …far accadere le cose.

Siate affamati, ma gentili

Il discorso che George Saunders tenne agli studenti nel 2013: <…siate affamati ma gentili>. Qualsiasi cosa farete eccedete in gentilezza.

La gentilezza è la qualità della leadership generativa, la capacità di fare dono di sé , la realizzazione di un Noi necessario per sviluppare intelligenza collettiva.

Essere <gentili> è cosa ben diversa da essere cortesi. Non si può essere <gentili> se non si è capaci di fare dono di sé agli altri. Ed è dal dono di sé che la leadership diventa credibile e si afferma come guida del gruppo e generatrice di talenti. Usando il processo di consapevolezza e di crescita che racconta Sanders, e quindi passando dall’Io al NOI.

<Nel corso degli anni si è andata affermando una tradizione per questo tipo di discorsi, che potremmo sintetizzare come segue: un vecchio noioso e antiquato, con i migliori anni ormai alle spalle, che nel corso della sua vita ha commesso una serie di errori madornali (che sarei io), dà consigli dal profondo del cuore a un gruppo di giovani brillanti e pieni di energie che hanno davanti a sé i loro anni migliori (che sareste voi). E io intendo rispettare questa tradizione.

Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica.

Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le articolazioni” in un mattatoio? (che non vi venga assolutamente in mente di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’ alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico neppure di questo.

In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy, diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane. Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla.

Insomma, arrivò nella nostra scuola e nel nostro quartiere, e per lo più fu del tutto ignorata, in qualche caso presa in giro (“Sono saporiti i tuoi capelli?” e altre battute del genere). Mi rendevo conto che questo la feriva. Ricordo ancora come appariva dopo una villania di questo tipo: teneva gli occhi bassi, se ne stava un po’ ripiegata, come se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, come se essendole appena stato ricordato il posto che occupava cercasse, per quanto possibile, di scomparire. Dopo un po’ scivolava via, con la ciocca di capelli ancora in bocca. A casa, dopo la scuola, immaginavo che sua mamma le chiedesse cose del tipo: “Come è andata oggi, tesoro?”. E lei rispondesse: “Oh, bene”. E sua madre forse le chiedeva anche: “Hai stretto amicizie?”, e lei rispondesse: “Sicuro, molte”.

Talvolta la vedevo bighellonare tutta sola nel giardino anteriore di casa sua, come se fosse timorosa di uscirne. E poi… Poi traslocarono. Ecco tutto. Nessuna tragedia. Nessuna grande presa in giro finale. Un giorno era lì, il giorno dopo era sparita. Fine della storia.

Ebbene, perché mai mi rammarico di ciò? Perché a distanza di quarant’anni ripenso ancora a quell’episodio? Rispetto alla maggior parte degli altri ragazzini, in realtà, io mi ero comportato abbastanza gentilmente con lei. Non le ho mai detto niente di sgradevole. Anzi, in qualche caso l’ho addirittura difesa (un po’). Eppure… Mi dispiace.

Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile. Mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere umano, addolorato, e io ho reagito… assennatamente. In modo riservato. Bonario.

Oppure, se vogliamo vedere le cose dall’altra parte, potremmo chiederci: chi ricordi con maggior affetto nel corso della tua vita? Con la più innegabile sensazione di cordialità? Quelli che sono stati maggiormente gentili nei tuoi confronti, scommetto.

Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”.

Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro problema? Perché non siamo più gentili? Questo è quanto penso io in proposito:

Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e, sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me).

Ebbene, noi non crediamo veramente a queste cose – a livello intellettuale non siamo certo così ingenui – ma ci crediamo a livello viscerale, e viviamo in modo conforme a ciò che crediamo, al punto che queste cose fanno sì che noi riteniamo prioritarie le nostre esigenze rispetto a quelle altrui, anche se ciò che vogliamo davvero, nel profondo dei nostri cuori, è essere meno egoisti, più consapevoli di quello che sta accadendo nel momento presente, più aperti, più amorevoli.

Ed eccoci alla seconda domanda da un milione di dollari: come possiamo riuscire a fare una cosa del genere? Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via? Già, bella domanda…Purtroppo, mi restano soltanto tre minuti ancora…

Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è. Voi già lo sapete, del resto, poiché nella vostra vita avete conosciuto periodi di Grande Gentilezza e periodi di Poca Gentilezza, e già sapete che cosa vi ha spinti verso i primi e lontano dai secondi. Una buona istruzione serve. Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve.

Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è difficile. Perché essere gentili all’inizio è essere tutti arcobaleni e cucciolotti, ma poi si espande, fino a includere… beh, proprio tutto.

Una cosa gioca a nostro favore: parte di questo diventare più gentili capita naturalmente, con l’età. Può trattarsi di una semplice questione di logoramento: a mano a mano che invecchiamo impariamo ad accorgerci di quanto sia inutile essere egoisti. Di quanto sia illogico, davvero. Iniziamo ad amare il prossimo e così facendo riceviamo una sorta di contrordine in merito alla nostra centralità. La vita reale ci prende a calci nel sedere, e la gente accorre in nostra difesa e in nostro aiuto, e così impariamo che non siamo separati dagli altri, né vogliamo esserlo. Vediamo le persone a noi vicine e a noi care indebolirsi, e poco alla volta ci convinciamo che forse anche noi un giorno saremo più deboli (un giorno, tra tanto tempo). La maggior parte delle persone, quando invecchia, diventa meno egoista e più amorevole. Penso che sia proprio vero. Il grande poeta di Syracuse Hayden Carruth quasi al termine della sua vita in una poesia scrisse di sentirsi “per lo più amore, ormai”.

Ed eccovi la mia previsione, il mio augurio di tutto cuore per voi: a mano a mano che invecchierete, il vostro Io diminuirà e crescerete nell’amore. L’IO sarà sostituito poco alla volta dall’amore. Se avrete figli, quello sarà un momento di enorme rimpicciolimento della vostra centralità. A quel punto non vi interesserà più ciò che accadrà a voi, purché siano loro a beneficiarne. Questo è uno dei motivi per i quali i vostri genitori oggi sono così orgogliosi e felici. Uno dei loro sogni più caramente accarezzatisi è trasformato in realtà: voi avete portato a compimento qualcosa di difficile e di tangibile che vi ha fatto crescere come persone e vi renderà la vita migliore, da adesso in poi, per sempre.

Da giovani siamo impazienti, come è giusto che sia, di scoprire se possediamo tutto ciò che ci serve. Ce la faremo? Riusciremo a costruirci una vita degna di questo nome? Ma voi – in particolare voi, di questa generazione – forse avrete notato un certa qualità ciclica in questa ambizione. Andate bene al liceo nella speranza di riuscire a entrare in una buona università, così da andare bene all’università nella speranza di riuscire a ottenere un buon posto di lavoro, così da poter svolgere bene il vostro lavoro nella speranza di riuscire a…

E tutto ciò è sicuramente ok. Se dobbiamo diventare più gentili, questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano. Sì, dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo essere.

Tuttavia, il successo è inaffidabile. “Avere successo”, a prescindere da ciò che può voler dire per voi, è difficile, e la necessità di farlo sempre si rinnova di continuo (il successo è come una montagna che continua a innalzarsi nel momento stesso in cui la scaliamo), ed esiste il pericolo molto concreto che per “avere successo” sia necessaria la vita intera, mentre le grandi domande restano senza risposta.

Ed eccovi dunque un consiglio veloce, per congedarmi al termine di questo discorso: dato che secondo la mia opinione la vostra vita sarà un viaggio che vi porterà ad essere più gentili e più amorevoli, sbrigatevi. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita.

Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla (dopo aver controllato che non ci siano in giro scimmie che cagano) – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali. Quella luminosa parte di voi che esiste al di là della vostra personalità – la vostra anima, se credete – è tanto luminosa e brillante quanto nessun’altra. Luminosa come quella di Shakespeare, luminosa come quella di Gandhi, luminosa come quella di Madre Teresa. Sbarazzatevi di tutto ciò che vi può tenere lontani da quella luminosità nascosta. Credete nella sua esistenza, cercate di conoscerla meglio, coltivatela, condividetene incessantemente i frutti.

E un giorno, tra 80 anni, quando voi ne avrete 100 e io 134, quando saremo tutti così gentili e premurosi da risultare quasi insopportabili, scrivetemi due righe. Fatemi sapere come è stata la vostra vita. Spero tanto che mi scriviate: è stata meravigliosa.

Congratulazioni, laureati del 2013. Vi auguro tanta felicità, tutta la fortuna del mondo e un’estate splendida.>

Spicchiamo il volo

Adam Grant in un articolo pubblicato sul New York Times ha coniato un termine nuovo: illanguidimento (languishing). Con questo neologismo Grant ha voluto sottolineare l’emozione dominante che sta caratterizzando questi tempi e che certamente ha a che fare con una comprensione non corretta del concetto di resilienza dinamica https://cleolicalzi.it/2021/10/13/3334/.

Grant indica con il termine coniato quel senso di malessere e di fatica che caratterizza chi davanti agli ostacoli ‘butta la spugna’ e ricerca negli altri le colpe, invece di rimboccarsi le maniche e dalla crisi costruire un’opportunità di cambiamento necessario e generativo.

Un pò come guardare la propria vita attraverso un parabrezza appannato: riduce la visibilità e impedisce di puntare avanti. Una condizione che ci rimanda in una condizione di incertezza che si colloca a metà tra le vette dell’entusiasmo e dell’impegno che sono il carburante di ogni intrapresa e le voragini invece tipiche dell’abbandono delle sfide. Che spegne la nostra motivazione.

E’ il fenomeno che viene definito della ‘grande rinuncia’. Le persone, semplicemente, ripensano alle loro carriere, alle loro condizioni di lavoro, agli obiettivi a lungo termine. Si fermano, tirano i remi in barca, e riformulano il percorso, con l’intenzione di andare alla ricerca di nuovi equilibri che intercettino prospettive più autentiche.

La ‘grande rinuncia’ nasce dalla combinazione di due bias , cioè di due distorsioni cognitive che incidono sulle nostre decisioni rompendo improvvisamente dis-equilibri che avevamo imparato a tenere a bada (https://cleolicalzi.it/2021/04/16/il-vulcano-in-eruzione-che-e-dentro-di-noi/).

Il primo è il bias dei cosiddetti ‘sunk cost’, i costi irrecuperabili, che si basa su quell’idea che, poiché si è già sostenuto un costo per ottenere qualcosa (non necessariamente in denaro, ma anche in tempo, emozioni, relazioni di lavoro), quel qualcosa vada preservato anche se non va più bene. Questo bias ci fa fermare nella apparente comfort zone anche quando questa è diventata limitativa, se non nociva (https://cleolicalzi.it/2020/08/15/barra-dritta/).

Sarebbe invece molto meglio resistere a questa errata percezione, non lasciarsi abbandonare come la rana nel pentolone (https://cleolicalzi.it/2021/07/09/la-rana-consapevole/) ed immettersi invece in una nuova prospettiva, capace di farci generare ancora valore.

Il secondo è il bias del ‘costo opportunità’. La percezione del fatto che qualsiasi scelta attuata implica sempre e in ogni caso anche un costo, corrispondente al valore che potrebbe essere conseguito compiendo una scelta alternativa. Questo bias fa sì che invece di vedere la scelta che facciamo, ci pone l’attenzione su tutte le alternative che lasciamo andare. Qualsiasi scelta diventa così la rinuncia a qualcos’altro. La prospettiva è inversa: anziché guardare avanti e lasciare il porto, lanciamo funi per rimanere ormeggiati.

L’illanguidimento nasce allora quando non gestiamo questi due bias, ovvero quando non ci mettiamo nella prospettiva del cambiamento generativo e perseguiamo nella nella direzione delle cose che contano davvero.

Vi sono due indicazioni utili per contrastare l’illanguidimento. Il primo riguarda il provare a immergersi nel ‘flusso’, cioè in quella speciale condizione di totale attenzione che è tipica del lavoro creativo. Dando proprio alla creatività il valore di forza trasformativa.

Il secondo stimolo riguarda invece la capacità di scegliere attività sfidanti ma non impossibili e procedere ‘un passo alla volta’. Ed accettare che nei percorsi possano sorgere ostacoli (https://cleolicalzi.it/2021/05/20/il-nemico-che-ce-in-noi/).

Ed imparare ad accettarli questi ostacoli. Fermarsi e – come fa google maps – <ricalcolare il percorso> (https://cleolicalzi.it/2021/04/08/lavori-in-corso/).

La cosa più coraggiosa che si può fare è talvolta esattamente questa: fermarsi e ripartire. Rimettere in discussione tutte quelle scelte lavorative che diciamo fintamente di amare ma che non corrispondono più alla nostra autenticità o che hanno esaurito il loro ciclo creativo.

Impariamo allora a non lasciare la guida dei nostri percorsi all’automatismo dipendente dalle abitudini o dal timore di affrontare l’incertezza e la dose di rischio che sono fatalmente connesse con il cambiamento. E spicchiamo il volo.

Ci proviamo tutti a spiccare il volo, per poi la sera ripararci sotto le pergole dei nostri piccoli gesti quotidiani. Essere abitudinari non è così da sfigati. I bambini sono abitudinari. E i cani. Il meglio che c’è in giro”.