Wabi-Sabi è l’attitudine giapponese ad accettare la transitorietà delle cose, apprezzandone la bellezza imperfetta ed incompleta.
Esprime il fascino e la potenza dell’imperfezione.
Ci consegna un insegnamento profondo questa antica parola che racchiude la disposizione giapponese al cambiamento: niente è perfetto, niente dura per sempre, tutto è impermanente. La bellezza, come ogni cosa, è in continuo divenire, si esprime nel cambiamento manifestandosi proprio lì dove fino a quel momento non avevamo posato lo sguardo per vederla.
Nasce dall’incrocio di due termini giapponesi, Wabi e Sabi.
La prima parola, Wabi, parla del bello senza ostentazione. Quell’eleganza fatta di dettagli, tipica delle minuscole arti della tradizione giapponese. Wabi sono le superfici ruvide e di colore non uniforme delle ceramiche giapponesi. Wabi è la cura con cui viene preparato il the per l’ospite. È il fiore solitario dell’arte dell’ikebana, che ci ricorda che ogni cosa ha una sua irripetibile bellezza, fatta di dettagli su cui costruire un movimento.
Wabi è la via di accesso ad una realtà semplice, che si riesce a cogliere solo rallentando. Che si percepisce solo allorquando l’attenzione si fa sottile, premurosa e capace di cogliere le sfumature molteplici della bellezza. Quello sguardo lieve che va oltre l’apparenza per incontrare il cuore delle cose.
Ciò che l’occhio distratto e veloce percepisce come mancanza diventa il momento in cui nasce il cambiamento, dando spazio alla generosità, al rispetto, all’umiltà, all’ascolto. E’ nel silenzio infatti che cogliamo quel dettaglio imperfetto da cui nasce una sinfonia. Wabi è lo stare nelle cose autenticamente, senza infingimenti.
La seconda parola, Sabi, esprime invece un’idea di bellezza imperfetta eppure, proprio per questo, ammaliante e piena di mistero. Una bellezza legata al passare degli anni. Quella patina che si deposita sugli oggetti e li trasforma.
Sabi è quella devianza dalla perfezione che la cultura occidentale percepisce come il venir meno di una completezza, come difetto; è che esprime invece tutta la bellezza dell’imperfezione della natura.
Sabi è l’incompletezza di una bellezza sfiorita, che ci trasmette la pienezza di una vita. E’ la piccola, graziosa, cicatrice sul ginocchio, a memoria di una caduta infantile. E’ un frammento di esistenza capace di raccontare una storia a chi sa stare in ascolto. E’ l’inizio sospeso nell’intensità del non detto, nella indefinita tenerezza di ciò che non si è compiuto eppure tocca l’anima.
Il wabi sabi insegna ad esercitare il distacco dalle nostre idee. Necessario per fluire dentro il cambiamento. Ci insegna a cogliere la ricchezza dell’essenziale. Che è possibile cogliere solo rallentando; solo quando avremo fatto silenzio dentro di noi.
La bellezza non è disgiunta dalla caducità delle cose. La bellezza è cambiamento. L’immagine che l’occhio trattiene è solo il riflesso di un attimo di perfezione. Ma il minuto dopo è già un’altra immagine.
Solo immergendoci fino in fondo nella realtà della mutevolezza possiamo comprendere come le imperfezioni siano le frasi che raccontano il nostro vissuto e come possano aiutarci a leggere con indulgenza e tenerezza le nostre esistenze, ad amare anche la bellezza triste dei nostri occhi che faticano a vedere lontano, delle nostre mani invecchiate di ricordi.
Viviamo in un mondo nel quale la perfezione è d’obbligo: ogni sforzo va compiuto, ogni limite va oltrepassato, ogni ostacolo superato. Il WabiSabi ci invita a fermarci. A stare in silenzio, a rallentare, a volgere lo sguardo più in là. Ci spinge a lavorare sulla nostra consapevolezza, per cogliere la Bellezza che sta <oltre>. E che cogliamo solo lungo il nostro (imperfetto) percorso di cambiamento.