«Vale meglio essere Socrate infelice che uno stupido soddisfatto. E se lo stupido è di diversa opinione, ciò si deve al fatto che egli conosce soltanto un lato della questione» (John Stuart Mill).
Il “cigno nero” (evento che in economia spiega un evento inatteso ed apparentemente imprevedibile) rivelatosi con l’emergenza covid ci ha svelato l’urgenza di definire una “economia di senso”, che metta al centro dell’agire quel complesso processo di ricerca e costruzione di una consapevolezza.
E lo possiamo fare raccontandoci correttamente la storia di come siamo cambiati – o di quanto abbiamo resistito per non cambiare – in quest’anno.
Raccontarsela bene serve infatti per sfuggire alla mancanza di senso e dare un significato alla complessità della vita.
Una storia ben raccontata ha il potere magico di dare un ordine alle cose, dare una direzione al nostro cammino. Ha la capacità di sviluppare consapevolezza intorno alla trasformazione e generare da una crisi, un’opportunità di crescita.
Solo quando attraverso la ricostruzione di senso che facciamo attraverso la narrazione diamo una cornice corretta agli eventi che ci sono successi ed alle trasformazioni che spesso abbiamo “subito” perché inconsapevoli, allora ci riconosciamo capaci di attribuire senso all’esistenza e giustificare le cose; anche e soprattutto a quelle fasi difficili connotate da scelte travagliate, e in quelle in cui dobbiamo rileggere sotto un’altra ottica gli eventi per costruire un nuovo ordine e spesso riallineare la cornice dei valori dentro i quali la riponiamo.
E’ passato un anno da quando le nostre vite sono state immerse nel caos del covid. Improvvisamente incertezza e imprevedibilità sono diventati punti cardinali della nostra esistenza. Un ossimoro, infondo. Abbiamo ancorato le nostre esistenze al fatto che qualcun altro desse ordine al nostro quotidiano. “Resistendo”.
Per molti è un po’ come se avessero pigiato il tasto <pausa>, in attesa di riprendere il nastro esattamente da dove l’avevano lasciato.
Ed invece questo tempo è proprio quello che necessita dell’azione. Siamo ancora in tempo, possiamo costruire nuove traiettorie di senso rileggendolo nella giusta prospettiva. Ma per farlo, dobbiamo “raccontarcela bene”.
La storia collettiva rappresenta solo lo sfondo delle nostre storie individuali, come un canovaccio corale rispetto alle partiture di ciascun interprete. I personaggi però non sono esecutori passivi delle loro parti in commedia del ruolo assegnato loro dall’autore, ma, a loro volta, attivi co-sceneggiatori della storia. Nella costruzione del racconto, impattano quindi le storie che collettivamente ci stiamo raccontando circa la nostra società, la politica, l’economia, il futuro.
L’infodemia scatenata anche dal ribaltamento delle abitudini, che ci ha spostato in modo ancora più immersivo nei social, ci ha “distratto” dl trovare un significato. La bulimia informativa è connessa proprio con la nostra paura di porci delle domande e di riflettere su di noi, dalla volontà di affrontare il caos.
Ripartiamo allora dal raccontarci bene le cose, aprendo anche lo sguardo ad esplorare quegli anfratti che abbiamo trascurato e che invece sono la lente con cui abbiamo guardato alla storia collettiva. Ripartiamo allora con il dare una cornice di senso a quelle idee di cui si ha bisogno per cogliere il significato di eventi importanti per l’esistenza di ciascuno di noi: l’assenza, la paura, la perdita, l’avversità, la sconfitta, la solitudine. Se impariamo a raccontarcela bene, cambia tutto.
<Noi siamo fatti per trovare un ordine, modelli e significati nel mondo. Per questo troviamo il caso e il caos del tutto insoddisfacenti. La natura umana rifugge l’imprevedibilità e la mancanza di senso.> Thomas Gilovich