<La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più. Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? In realtà chi sei tu per non esserlo? Il nostro giocare in piccolo non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi, cosi che gli altri non si sentano insicuri intorno a noi. Siamo tutti nati per risplendere. E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso. E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.> Marianne Williamson
Giocare al ribasso non serve. Anzi è decisamente una leva dissonante. Una scusa che ci raccontiamo per non metterci veramente in gioco, per non abbandonare lo status quo delle nostre paure.
La paura di essere “troppo” è un ostacolo a mettere in gioco il proprio talento. A lavorare sulle nostre potenzialità. Sulle abilità che abbiamo “in potenza” ma che solo se li sperimentiamo diventano agire ed orientano il cambiamento.
Giocare al ribasso è il bivio pericoloso tra aspettative e motivazioni. La paura prende la strada delle aspettative. Il cambiamento quella delle motivazioni.
Otto Scharmer, professore del MIT di Boston, ha proposto un interessante un modello innovativo di apprendimento per il cambiamento basato sull’intelligenza emotiva, la U-Theory. Alla base di questo modello l’assunto della relazione tra leadership e paura. Paura del nuovo, di una nuova idea di impresa, di un nuovo progetto, di qualcosa di nuovo del quale non si ha una conoscenza pregressa. Paura di doverci mettere alla prova.
La paura a cui fa riferimento Scharmer è una parola costruttiva e non limitante, che consente di affinare i sensi per meglio comprendere il cambiamento in atto. E’ una paura che aiuta a comprendere meglio le responsabilità perché un leader non solo deve sapere intuire la strada da percorrere ma anche avere la capacità di portare con sé tutte le persone di valore che ritiene siano importanti per condividere il viaggio.
La paura altro non è che la <chiusura della volontà>, il timore di perdere ciò che abbiamo, di venire emarginati.
Ciò che ci impedisce veramente di connetterci con la soglia della creatività e arrivare a scoprire quello che di nuovo sta emergendo sono le “voci interiori di resistenza” che ce lo impediscono. Atteggiamenti che favoriscono una struttura sociale di separazione, che alzano muri, facilitano la disconnessione con il mondo circostante, e non consentono di cogliere quel che c’è di nuovo; che tendono a distruggere le relazioni tra le persone, a incolpare gli altri dei propri insuccessi, a minare il senso di fiducia. Sono tutte espressioni di “absencing”, di assenza, di incapacità di cogliere il senso del presente, di sentire il presente come inizio di un futuro che dipende dal nostro talento.
Solo quando <permettiamo alla nostra luce di risplendere> diamo – e non inconsapevolemente – agli altri la possibilità di fare lo stesso. Solo quando <ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri> e scatena intelligenza collettiva.
Ed allora, lasciamo che esploda in luce il nostro talento. Lavoriamo perché prevalga un altro ciclo, quello del “presencing”, dove i sistemi sociali possano sviluppare, attraverso ogni soggetto coinvolto, la curiosità (apertura della mente che genera creatività), la compassione (apertura del cuore che genera ascolto attivo) e il coraggio (apertura della volontà che genera azione), creando architetture di connessione in grado di abbattere tutti i muri.