Resilienza dinamica

Non c’è parola in questo momento più abusata di <resilienza>. De Masi l’ha definita una buzzword, ossia una parola ‘di moda’ con un forte impatto evocativo, che spesso è sconnessa dal suo significato letterale e rimanda invece ad un ideale estetico e morale piuttosto che a un concetto meccanico quale è quello insito nel suo etimo.

Il significato di questa parola è mutato profondamente con l’intervento della psicologia che ne ha esteso l’ambito iniziale di natura meccanicistica che indicava la capacità di un materiale di reggere l’urto attraverso proprietà elastiche in grado di ‘assorbire il colpo’ e la capacità di ‘rimbalzare’ (dal latino resilire, ovvero rimbalzare). Ritornando quindi alla posizione di partenza. Una prospettiva statica, trascinata dagli eventi.

Nell’ambito della scienza dei materiali, resilienza indica infatti la proprietà che hanno alcuni elementi di ‘conservare‘ la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a prove di forza. In biologia e in ecologia la resilienza esprime invece la capacità di un sistema di ‘ritornare‘ a uno stato di equilibrio in seguito ad un evento perturbante.

L’economia comportamentale ci svela un significato più dinamico, e per questo più ‘potente’, esprimendo con il termine di resilienza  la capacità di far fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, riorganizzando in modo costruttivo la propria vita dinanzi alle difficoltà.

La resilienza ‘dinamica‘ è allora la capacità di assorbire il colpo acquisendo coscienza dei propri punti di fragilità, presentandosi sensibili alle opportunità che si annidano dentro le crisi (e le lezioni che questa ci lascia), e quindi sviluppando consapevolezza ed uscendo dalla zona confort per innovare, e cosi generare un cambiamento positivo.

Essere resilienti non significa resistere alle difficoltà attendendo ‘che passi l’onda’, ma implica invece una dinamica positiva, la capacità di leggere il contesto ed andare ‘oltre’. La capacità di generare cambiamento.

Resilienza è una parola davanti alla quale abbiamo sentimenti controversi: ne siamo attratti e turbati allo stesso tempo. Attratti perché ci svela la capacità di resistere alla sorte avversa, esaltando la forza (presente in ognuno di noi) di rialzarsi da una situazione che ci aveva messo a terra. Ma al contempo ci allerta perché costringe a riconoscere ed affrontare i propri limiti.

In questo tempo, che mal sopporta limiti e fallimenti e coltiva ancora una perdente cultura dello scarto, e che contrappone la perfezione al non valore, la resilienza evoca un ‘rimbalzo’ dopo una caduta per ritornare allo stato pre-esistente. 

Così riletta, la resilienza è ciò che insegna il Kintsugi, ovvero “partorire bellezza da una rottura”, costruire valore dalla presa coscienza delle nostre debolezze (Kintsugi: https://cleolicalzi.it/2021/01/29/kintsugi-la-tecnica-dellantifragilita/).

La parola Resilienza ci ricorda allora quello che non siamo, ossia perfetti. Ci ricorda invece le nostre vulnerabilità, la possibilità di cadere, l’imperfezione del nostro agire. Ed allora, acquisendo consapevolezza proprio a partire dai nostri limiti, possiamo costruire i nostri percorsi di cambiamento, di ripresa.

E forse solo così capiamo in pieno il perché della parola resilienza nel PNRR, dove viene associata alla parola ripresa, proprio per sottolineare come la ripresa è possibile solo affrontando i nostri limiti, prendendone piena consapevolezza ed agendo per superarli.

La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia Gandhi

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