Presente percepito

Prima che si generi valore dal cambiamento, serve che si affermi la propensione al cambiamento.

Quello su cui bisogna lavorare è allora quella “crepa” da cui fare entrare la luce del cambiamento. Quel primo lampo che poi lavora a costruire nuove consapevolezze. Il resto viene da sé, nel susseguirsi di nuovi pensieri, nuovi ascolti, nuove prospettive dentro le quali prendono forma nuove azioni.

La difficoltà ad affermare nelle organizzazioni di lavoro una propensione al cambiamento è legata al rapporto tra cambiamento e motivazione. Alla percezione di eterno presente a cui la struttura si lega e consolida i rapporti motivazionali.

I cambiamenti organizzativi nei sistemi di lavoro, sempre più frequenti e necessari, determinano resistenze in ragione delle incertezze di cui è lastricata la nuova strada. Radicati ad un presente percepito, anziché proiettati sul futuro possibile.

Le persone, non formate al cambiamento, classificano infatti dentro confini rigidi le ragioni che inducono a modificare situazioni preesistenti.

I cambiamenti possono costituire minacce alla proiezione di sé. Per questo si tende a resistere, a sfuggire.

La resistenza al cambiamento dipende dalla narrazione che ne facciamo. E se provassimo a cambiare la trama ?

Per indurre a produrre cambiamento generativo, bisogna allora lavorare sulle resistenze a monte del cambiamento, supportando la scelta di un cambiamento intenzionale e stimolando il coinvolgimento e la partecipazione attiva delle persone al lavoro. Rendendo tutta la squadra co-costruttrice del cambiamento.

Ed è qui la differenza tra il management e la leadership. Se il primo lavora sulla resistenza al cambiamento, la leadership lavora invece sulle motivazioni al cambiamento.

La resistenza al cambiamento organizzativo poggia infatti le sue fondamenta sull’esigenza di bilanciare azioni orientate a gestire e riportare a schema la complessità (proprie del management) e quelle indirizzate a guidare il cambiamento generato proprio dalla sfida alla complessità (più tipiche della leadership).

Il plus che porta in sé la leadership sta proprio nella capacità di non ‘resistere’ alla complessità, ma di sapere invece essere leva di creatività generativa, facilitatrice della conoscenza, negoziatrice di idee e promotrice di nuove consapevolezze.

La leadership quindi lavora per mandare in scena il cambiamento.

I fattori ostacolanti il cambiamento risiedono spesso nella sfera emotiva delle persone. In quelle vulnerabilità che non affrontiamo. E che lasciamo cristallizzare spostando l’attenzione su quel nemico invisibile che è il destino. Contro cui nulla (pensiamo) possiamo. Ma che non guardiamo mai come un alleato che ci mette davanti quel quid che può cambiare la trama di un presente sino a quel momento solo percepito ma non realizzato.

Quel palcoscenico che non abbiamo sino a quel momento avuto la consapevolezza di volere aprire. Lasciamo allora che accada, che lo spettacolo abbia inizio.

Costruisci un desiderio, condividilo e dagli potere

<Costruisci un desiderio. Qualcosa di puro e di grande, che sia buono per te ma possa anche rendere felici gli altri. Sii umile ma giusto. Temperalo dalle tue rivalse, dai torti che hai subito, dalle smanie di vendetta. Infondigli il tuo stile. Quand’è ripulito da tutto ciò che è male, chiuditi con il tuo desiderio in una stanza, da solo. Contemplalo, amalo, fallo interamente tuo. Adesso soffiagli sopra e dagli potere.

La qualità più importante di una leadership è nutrire in sé e nella squadra il desiderio.

Desiderio, dal latino de-siderum, senza stelle, rivela una mancanza, un qualcosa che “manca” tra quello che siamo e come ci vediamo proiettati. E che se generiamo squadra, diventa il senso comune del divenire insieme.

E’ proprio il desiderio che traccia il cammino verso una meta, proprio come la stella polare o la stella cometa. E lo fa segnando la distanza tra dove siamo e dove vogliamo arrivare; tra dove è il gruppo e verso cosa lo vogliamo condurre. La strada da percorrere tra quel sé ideale ed il sé reale rappresentata nel modello di Boyatzis, che è la base del cambiamento intenzionale, quello che si sceglie di fare consapevolmente per creare valore.

Quel percorso – verso le stelle – che identifica un obiettivo e traccia la direzione per seguirlo. Che stimola all’azione e sprigiona energie e motivazioni speciali. Dà un significato alle scelte. Dà un stile alla leadership.

Il Desiderio è necessità, passione, volontà. Ma è soprattutto una dichiarazione di impegno.

Nutrire il desiderio del team è allora la capacità di generare nei collaboratori la motivazione necessaria per raggiungere obiettivi importanti. Stare orientati al risultato finale più che ai compiti assegnati. Capire quali sono i passi da compiere per migliorare, focalizzandosi sulle priorità.

Il desiderio proietta sul divenire, anziché lasciare ancorato all’essere.

Non è importante il raggiungimento della meta, quello che conta veramente per chi ‘desidera’ è mettersi in cammino, scoprendo la forza potente del desiderio condiviso, quello che veramente dà valore generativo al gruppo e potenzia i singoli talenti.

Gli obiettivi della leadership sono sempre un percorrere condiviso, in un’ottica collaborativa, di condivisione e apertura, che ci consente di andare molto più lontano. Insieme.

Un desiderio collettivo è infatti molto più potente della somma dei desideri individuali.

La leadership sa dare un ‘nome’ alla stella, stimolando i desideri di senso delle persone e mettendoli in connessione tra loro.

Costruendo una narrazione comune, che crea intelligenza collettiva, quel faro che serve a mantenere la rotta in base al valore di fondo, alla vera posta in gioco. Che è quel desiderio intorno al quale le persone risuonano e per il quale scelgono consapevolmente e pro-attivamente di contribuire, riconoscendo il valore di guida alla leadership.

Il nemico che c’è in noi

Tra i nemici pronti a sabotare i nostri piani di cambiamento, uno dei più insidiosi è l’auto-sabotaggio. Quell’ostacolo che noi stessi mettiamo davanti per impedire le nostre scelte di cambiamento. Sino a quell’autosabotaggio estremo che è la nikefobia, la paura che abbiamo di raggiungere il successo in una sfida.

L’auto-sabotaggio è quasi sempre dovuto alle nostre aspettative irrealistiche, alla nostra incapacità ad accettare la variabile imprevedibile, al nostro rifiuto dell’incertezza.

E’ un inciampo di percorso connesso all’incapacità di godere dell’“imperfetta meraviglia”, quella dimensione della realtà che scopre come sia proprio il dettaglio imperfetto a scatenare in noi il desiderio generativo del cambiamento.

Sono allora i limiti della nostra immaginazione il detonatore dell’auto-sabotaggio. Quando infatti ci troviamo ad affrontare un cambiamento, partiamo dal presupposto che se non lo abbiamo fatto prima, non siamo in grado di farlo. Eppure qualsiasi comportamento necessita di pratica per essere appreso, e necessità di essere sperimentato in varie forme perché possa migliorare.

Nel momento in cui dal cambiamento idealizzato, iniziamo ad agire, può accadere che operiamo un autosabotaggio per paura di fallire. Quel famoso “primo passo” che tardiamo a fare, e quando lo facciamo il tempo è già un altro.

Aspettiamo il maturarsi di un tempo che non cogliamo ‘in tempo’.

Il meccanismo dell’autosabotaggio non è altro che il sensore di allarme che ci richiama l’attenzione su qualche meccanismo da resettare nel rapporto tra noi e le nostre aspettative. Quando il livello di aspettative supera il livello di motivazione, il sensore di controllo si mette in azione.

Ma non è il contenitore delle aspettative che dobbiamo in questo caso svuotare, piuttosto riempire il vaso delle motivazioni.

E’ proprio ricaricandoci di motivazione che potremo disinnescare l’autosabotaggio. Non abbassando le aspettative ma calibrando le motivazioni.

Lasciare crescere il fiore in libertà

L’assenza di leadership si manifesta  anche nella necessità di esercitare il controllo. L’inadeguatezza trova infatti conforto nel ‘controllo delle cose’, nell’idealizzazione di un cambiamento pianificato in ogni piccolo dettaglio, e che si arresta al primo ‘cambio di programma’. Nell’assenza di un varco per dare spazio alla creatività.

“Smettere di controllare” è un cortometraggio di animazione il cui protagonista è Dechen, un giovane monaco buddista che ha una grande passione per il giardinaggio ed in particolare di un fiore che ha sottratto alla tempesta e del quale si prende cura con dedizione. Una dedizione “totalizzante”: quotidianamente Dechen controlla con cura ogni minimo progresso e dedica il suo tempo a dedicarsi alla crescita del suo fiore. Dechen nutre le sue aspettative, mentre nutre il suo fiore.

Dechan controlla con certosina applicazione  l’avanzamento delle sue aspettative. Ma nonostante le sue incessanti cure e la sua ‘dedizione’, accade che il fiore piano piano smette di crescere e perde vitalità. Fino  a quando l’appassire del fiore provoca in Dechen incomprensione e demotivazione.

Dechen – che associa il risultato al suo impegno – non riesce ad accettare la situazione e cerca in ogni modo di trovare nella sua cura il motivo della reazione del fiore. Chiede quindi aiuto ad Angmo, che lo invita a lasciare che il fiore trovi la sua strada. Lo sprone di Angmo spinge finalmente Dechen fuori dall’ambito di visuale in cui la sua cura dei dettagli lo aveva piano piano rinchiuso.

Lontano dalla sua “gabbia” di convinzioni e di abitudini, Dechen trova altri interessi. Si distrae dal suo fiore, e lo lascia al suo destino di crescita. E solo così, quando torna a fargli visita, lo trova in splendida forma. Potendone finalmente cogliere la meraviglia della piena fioritura.

Dechen sperimenta così che solo eliminando la necessità di potere e di controllo, il suo fiore comincia a sbocciare di nuovo.   

“Smettere di controllare” insegna che è indispensabile sapere distinguere tra impegno e controllo, tra cura e controllo. Il cambiamento nasce proprio dalla capacità di fare questa distinzione, imparando a lasciare lo spazio alle cose, alle persone, ai talenti, alle organizzazioni di lavoro, di evolvere e crescere. Lasciando che il talento della squadra esprima il suo valore sotto la guida della leadership e non sotto il suo controllo. Guidando il cambiamento, ma non ‘obbligando’ il cambiamento.

Insegna a smettere di pianificare tutti i dettagli della partenza, rimandando il cambiamento. Vedendolo appassire per la ‘troppa cura dei particolari’.

Se pretendiamo di avere tutto sotto controllo, pensando di indicare deterministicamente una direzione, e imporla al gruppo, senza la necessaria ‘agilità’, senza accogliere il feedback, resteremo a guardare un fiore che piano piano perde la sua forza innovativa. Perde la potenza della sua generatività.

Dobbiamo invece abbracciare la complessità e l’incertezza. Imparare a liberarci delle catene che imprigionano le causalità in un destino già definito. E generare invece cambiamento proprio dal dettaglio ‘fuori posto’ che apre le porte alla potenza della creatività. E che ci viene rivelata solo nel momento in cui…perdiamo il controllo.

Chi soffre prima del tempo soffre più del necessario.” Seneca

Euristiche, le deviazioni per non cambiare

Se diamo sempre retta a Cappuccetto Rosso, non crederemo mai al lupo cattivo.

E’ più facile raccontarsela che raccontarla. A raccontarsela si costruisce la storia trovando alibi, giustificazioni, colpe, e spostando il bilanciere sempre dalla parte delle altrui responsabilità. Gli altri sono sempre i cattivi, esattamente come il Lupo, mentre per noi cerchiamo attenuanti e determinanti che ci assolvano.

Lavorare su di sé non è mai facile. Necessità una passione per sé stessi e per la nostra autenticità; una passione però ‘tenue’, capace cioè di cogliere tutte le sfumature della nostra vulnerabilità ed accoglierle in un processo di crescita continua.

Comporta una grande capacità di lettura interiore, l’abilità ad andare oltre la superficie e fare rotta verso le parti più profonde di noi, alle radici delle nostre scelte. Comporta avere consapevolezza di sé stessi, delle proprie capacità, dei propri limiti. Necessita di una delle leve della leadership, che è la curiosità, la propensione creativa.

Sono proprio i nostri limiti i confini del nostro raccontarci. E’ infatti davanti ai nostri limiti, che innestiamo quel pilota automatico che sono le euristiche, le stradine laterali che prendiamo quando non vogliamo affrontare la strada e le sue difficoltà.

Nell’euristica della rappresentatività, si tende a sovrastimare un dettaglio, e così a creare un filtro a tutte le altre informazioni. L’euristica riduce la visibilità, accorcia l’orizzonte, chiude il flusso informativo. E ci porta a raccontarci “sempre la stessa storia” senza crescere in consapevolezza. E’ tipico della mentalità statica, protettiva avverso il nuovo.

Ancora più scivolosa è la stradina dell’euristica dell’ancoraggio. Le decisioni vengono prese in base alle prime informazioni che si trovano. Esattamente il contrario della formazione della consapevolezza. Il meccanismo che si mette in atto è quello della riduzione della distanza, malcelato dietro la tendenza alla mediazione. Questa euristica ancora a ciò che appare più visibile, impedendoci di leggere – e di raccontarcela – in profondità, limitando la parte creativa e intuitiva della mente. E non permettendoci di crescere in consapevolezza.

Dobbiamo invece imparare a percorrere la “via maestra” della consapevolezza, affrontando salite e insenature tortuose, nella convinzione che sono proprio quei sassi sulla strada (gli ostacoli) a darci la possibilità di costruire mattoni di consapevolezza e aiutarci ad affrontare superare i nostri limiti. E che proprio spostarci nelle stradine laterali ci impedirà di ‘conoscere il Lupo’, e scoprire che poi non è così cattivo come ce lo avevano da sempre disegnato.

Festina lente, affrettati con calma

Festina Lente. Questa scritta è incisa su alcune monete romane che raffigurano l’immagine del delfino e dell’ancora intrecciati tra loro.Il delfino comunica velocità, agilità, intelligenza, entusiasmo; mentre l’immagine dell’ancora richiama il fermarsi, il prendersi il “giusto tempo”, l’attracco nel porto sicuro.

Il delfino simboleggia il cambiamento ed il progresso. L’ancora la solidità e l’attaccamento ai valori di base.

Il contraddittorio tra l’affrettarsi e la calma viene richiamato anche da Cosimo de’ Medici, che scelse invece la tartaruga e la vela spiegata, facendone l’emblema della sua flotta, come monito di ponderazione delle intraprese perché queste avessero successo.

Entrambi i due simbolismi descrivono bene la pazienza come chiave di abilitazione di ogni crescita. E come una delle più importanti abilità della leadership.

La pazienza intesa come azione. Come esercizio consapevole di volontá.

L’errore più comune è infatti pensare che la pazienza sia “attesa passiva”, tolleranza priva di azione, un’espressione di resa.

Al contrario la pazienza è <forza concentrata>. É la capacità di far maturare gli eventi, di guardare oltre, di riflettere invece che agire d’istinto, accogliere anziché rifiutare, tollerare errori e fallimenti rimanendo costanti sull’obiettivo. Ed è pazienza anche la ricerca di ciò che ci unisce rispetto a quello che ci divide. 

La pazienza non è allora inerte rassegnazione; ma è invece il realismo mosso dall’ottimismo della volontà. Alla ricerca di relazioni generative. Solo la pazienza permette infatti di costruire quei ponti che fanno convergere le persone verso un comune obiettivo.

La pazienza è la capacità di rimandare la propria reazione alle avversità, mantenendo nei confronti dello stimolo un atteggiamento di distanza che permette di costruire l’azione mettendo in ordine tutte le variabili.

La pazienza è quindi la qualità che distingue chi sa costruire valore anche nelle avversità, perseverando nelle azioni. È la necessaria calma, costanza, assiduità, applicazione senza sosta nel fare un’opera o una qualsiasi impresa, contrapposta a quella tentazione al “tutto e subito” così radicata nel nostro paradigma culturale, ed ancor più in quello organizzativo e manageriale.

«E invece la pazienza esige una dilatazione del presente, un suo allungamento, una sosta nell’incessante divenire. Occorre fare pausa, fare tregua, per essere pazienti» 

E’ proprio la pazienza, il suo passo lungo, distante dall’affanno del presentismo, che ci consente di aspettare il momento giusto, la maturazione dei tempi che permette la giusta messa a fuoco prima dell’azione.

Come raggiungere un traguardo ? Senza fretta, ma senza sosta (Goethe)

Priorità e Parentesi

In algebra c’è un preciso ordine con cui i numeri si compongono per produrre un risultato. Prima si svolgono le potenze, poi le moltiplicazioni e le divisioni, e solo per ultime le addizioni e le sottrazioni. Ma le parentesi, quelle due piccole cupolette, possono stravolgere tutto. E costruire un diverso risultato.

Quando racchiudiamo una somma dentro le parentesi, infatti, questa ha la precedenza su tutte le altre operazioni, anche su un prodotto, che apparentemente potrebbe sembrare più importante e prioritario.

Le parentesi, quelle “pause” che mettiamo tra le cose che facciamo, cambiano le priorità. Trasformano il risultato.

E non sono tutte uguali le parentesi. Abbiamo quelle tonde, le quadrate e le parentesi graffe; ognuna sovverte l’ordine delle altre. In una gerarchia che distingue le pause incidentali, dalle pause intenzionali, dalle pause strategiche.

Il cambiamento somiglia proprio alle equazioni algebriche, con tutta quella sequenza di fatti, azioni, accadimenti, emozioni, pensieri, parole: tutte variabili apparentemente semplici, cui invece le diverse parentesi che occorrono mutano il significato e l’impatto che hanno nel risultato finale. Le parentesi sono quei passaggi, quelle decisioni, quegli errori, quelle svolte accidentali che succedono e che mutano l’ordine delle priorità.

Basta un piccolo errore, un segno sbagliato, una somma anteposta ad una moltiplicazione, una parentesi dimenticata, un segno inverso che trasforma nel suo opposto la potenza, ed il risultato te lo porti dietro, anche nei passaggi successivi.

Ogni segno nell’algebra, anche il più apparentemente impercettibile, lascia il segno e costruisce una nuova strada. Ci costringe ad abbandonare la strada che stavamo percorrendo e ci rimette in un’altra strada. Semplicemente cambiandoci le priorità.

Come nelle equazioni, così nella vita è essenziale soffermarsi ad individuare sempre le giuste priorità, scegliere il giusto tempo, senza mai dimenticarsi di leggere dentro le parentesi. E dentro il significato che le parentesi contengono (https://cleolicalzi.it/2020/07/31/tra-parentesi/).

Libertà non è una scelta individuale

Libertà è partecipazione. Essere liberi non é una dimensione solipstica che riguarda una scelta solo individuale. Libertà è invece far parte di qualcosa, essere parte di qualcosa. Sentirsi e agire con la responsabilità di essere parte integrante ed interagente in una società.

Libertà è una parola potente che esprime dinamicità e quindi cambiamento, ma che deve tenere conto di quel complesso equilibrio tra libero arbitrio e conseguenze collettive a cui ci riporta l’etica della responsabilità. La responsabilità di fare delle scelte di libertà che siano trasformative. Ed assumersi l’impegno delle scelte di libertà.

Giorgio Gaber e Sandro Luporini in un testo del 1973 hanno reso in versi questo incrocio tra libertà individuale e libertà collettive.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero”. Sta sopra un albero chi rifugge il confronto, chi non fa spazio al divenire, facendosi trasformare dal confronto con gli altri.

Essere libero non significa vivere isolati, fuori dalla società: la libertà non deve essere fine a sé stessa, ma per essere veramente ‘libera‘ deve essere agita e condivisa.

Perché realizzi veramente il suo significato, deve essere libera anche di costruire relazioni generative, senza chiudersi in un “castello” che non ammette confronti e diversità.

“Non è neanche il volo di un moscone” : la libertà non è un volo in solitudine, non è un assolo; non ci si può sentire liberi stando soli, perché la libertà è collettiva, è qualcosa che si può realizzare solo realizzando prima tutti i fondamenti della democrazia.

È infatti la democrazia lo spazio in cui si può crescere, liberando il proprio talento e la propria creatività allargando – e non confinando – con la forza del proprio pensiero personale. Una democrazia vista proprio come spazio organizzato di libertà: la dimensione in cui si può ampliare i propri orizzonti, allargare la prospettiva delle proprie visioni e innalzarsi con la forza che viene dal sentirsi parte significante di un sistema.

La libertà non è uno spazio libero. Essere liberi non è un gesto occasionale, e men che mai può essere un’invenzione o un’opinione. E’ invece la scelta consapevole dell’uomo alla ricerca di un’intelligenza collettiva che vada oltre il proprio pensiero.

Libertà non è allora star sopra un albero a guardare dall’alto, tirandosi fuori dalle cose. Ma è invece stare dentro le cose con consapevolezza e con l’agire rivolto a costruire non visioni solitarie ma a sviluppare intelligenza collettiva.

La libertà è creare ascolto e affermare spazi di ascolto. Perché l’intelligenza libera è quella collettiva, dove ognuno è parte del sistema, in cui tutti rivestono un proprio ruolo e tutti contribuiscono al bene comune.

La libertà è allora un processo che deve essere alimentato dalla consapevolezza, da quell’allargamento di prospettiva che si alimenta del confronto e che trae valore dal suo moto verso il cambiamento. Verso quello spazio che non è ‘spazio libero’, ma spazio di partecipazione e di crescita.

Ribaltare il pensiero ordinario

Innovare significa <destabilizzare> ovvero ribaltare il pensiero ordinario ed abbandonare la zona comfort degli spazi già acquisiti. Significa costruire nuove visioni condivise, sviluppare nuovi saperi e generare nuove azioni. 

Si rimane ancorati nel passato se si persegue con gli adattamenti, le vie brevi, le soluzioni semplici, visioni ideali ma non rese ‘vive’ attraverso la traduzione in azione.

Il cambiamento si nutre invece di confronto e di re-azioni. 

Per <innovare> occorre avere il coraggio di un cambio di paradigma. Occorre diventare consapevoli – non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro, la vera innovazione (quella sociale e culturale) sarà di chi saprà coniugare conoscenze e competenze, bisogni e soluzioni, ascolto ed azione, di chi saprà “costruire” dialogo sociale e trasformarlo in azioni di cambiamento. Di chi riconosce nelle differenze un valore a partire dal quale costruire il cambiamento.

Non tutti siamo pronti ad affrontare il cambiamento. Dobbiamo prima imparare ad avere dimistichezza con l’incertezza e la volatilità. Ed imparare a <gestire> la complessità. Dobbiamo acquisire una mentalità volta alla crescita e non alla resistenza.

Bisogna abbandonare gli spazi di comfort che ci confinano dentro le nostre ‘sicurezze limitanti’ e invadere nuovi spazi percorrendo i percorsi della complessità.

Il primo step per realizzare Leadership è allora proprio la capacità di sapere mettere in discussione lo status quo e saper guidare il cambiamento necessario. Abbandonare quello stato di inerzia che bene racconta Noam Chomsky con la metafora della ‘rana bollita’ (https://cleolicalzi.it/2021/07/09/la-rana-consapevole/) per descrivere l’attitudine ad adattarsi e resistere al cambiamento senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. Per innovare bisogna ‘sentire’ la temperatura dell’acqua. Nel ‘tiepido vapore’ di Naom Chosky si annidano tutti i ‘no’ ed i ‘forse’ che diciamo per ritardare il cambiamento.

Il cambiamento deve invece realizzarsi in quell’urgenza che ci dà il flusso di acqua bollente che ci arriva addosso e che ci rende consapevoli del bisogno di agire nel cambiamento.

<Se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto> (Thomas Jefferson)

Il vulcano in eruzione che è dentro di noi

La rabbia è un’emozione universale, che con diverse intensità incontriamo tutti nella vita. Se le permettiamo di fare il suo corso, senza rinchiuderla dentro di noi, può diventare un alleato prezioso per il cambiamento.

Espressione di emotività eccessiva e caratterizzata nella modalità dissonante dalla mancanza di freni, la rabbia è considerata erroneamente un’emozione negativa. É invece un’emozione che contiene in sé altri significati oltre la sua modalità espressiva.

Tenerla dentro senza mai manifestarla equivale ad avere in borsa una bomba che potrebbe esplodere in qualsiasi momento. Non a caso, Julia Cameron definisce la rabbia “un combustibile”, che ci accende in modo istintivo.

Quando proviamo questa emozione siamo spinti a fare qualcosa di violento, ma poi pensiamo che “non sta bene” e quindi la reprimiamo, facciamo finta che non esista, ci impegniamo in qualsiasi cosa tranne che nella cosa più giusta che potremmo fare: ascoltarla. Conoscere i suoi compagni di cammino.

La rabbia infatti non ‘cammina’ mai da sola. Spesso è solo il segno della presenza di altre emozioni concomitanti, che restano nascoste (e che non trovano espressione nell’esplosione deflagrante) come la paura, la vulnerabilità, la demotivazione, la delusione. Sono questi i lapilli che lasciamo nascosti sotto il vulcano, mentre la lava della rabbia fa la sua ‘spettacolare’ esplosione.

Il problema della rabbia allora non è l’emozione in sé che, in quanto tale, è del tutto naturale ed inevitabile, bensì il nostro modo di reagire. Ciò che dalla rabbia siamo disposti ad <imparare>.

La rabbia non nasce dal nulla. E per lo stesso motivo non si dissolve da sola, va invece trasformata in qualcosa di generativo. La rabbia può avere una forte spinta motivazionale e se ben elaborata può dare spazio ad una grande trasformazione interiore, che lavorando sulla consapevolezza, trasforma le ‘mancanze’ in crescita.

La rabbia va ascoltata, perché è come una mappa che ci mostra dove vogliamo andare in futuro, dove siamo stati in passato e che cosa non ci è piaciuto.

Essere talvolta arrabbiati può essere uno stimolo proattivo al cambiamento, ma solo se sappiamo ascoltarla. Se ci fermiamo ad ascoltarla.

Se nascondiamo “la voce della rabbia” dietro il frastuono della sua carica esplosiva non ci fermeremo mai a lavorare su quel magma sotterraneo che dà origine all’esplosione.

Trovare invece i giusti condotti da cui far uscire la potenza eruttiva rende il vulcano attivo ma non pericoloso.

Dalla rabbia ben canalizzata deriva la nostra energia creativa. Quella straordinaria forza che ci mette in moto.

Quindi, quando proviamo l’emozione della rabbia, fermiamoci e diamo ascolto a ciò che il “magma ci dice”. Facciamo defluire la nostra energia creativa risvegliata dalla nostra ‘rabbia buona’. Forse troveremo proprio nel dialogo con la nostra rabbia, la spinta creativa che dare il via ad un nuovo progetto.

Il futuro è nelle nostre scelte di cambiamento

Quella che chiamiamo <incertezza> e <complessità> spesso è solo effetto della nostra resistenza al cambiamento.

Davanti a variabili che intervengono a modificare l’equazione perfetta con cui cristallizziamo la nostra vita, anche e soprattutto lavorativa, vi è la scelta (inconsapevole) di indossare l’armatura della resilienza passiva, insistendo a resistere anziché iniziare a “costruire il cambiamento”.

Oggi dobbiamo fare i conti con variabili “nuove” – e che prendono i nomi di incertezza, complessità, instabilità, imprevedibilità – che riempono il nostro quotidiano ed irrompono mettendo in discussione all’improvviso tutti gli schemi.

Siamo passivi se non ci fermiamo e reagiamo per <re-azione> senza avere avuto il tempo di elaborare il processo di consapevolezza necessario a generare il cambiamento intenzionale.

Dobbiamo cambiare cambiando prima noi.

Quando un evento improvviso o inatteso (quello che in economia comportamentale viene chiamato <cigno nero>) scombina i nostri piani, è allora il momento di far defluire tutte le esperienze, tutte le nuove conoscenze apprese, riflettere ed agire cambiando.

Ma per farlo, per affrontare la complessità, bisogna prima allearsi con noi stessi. Riconciliare il nostro sé che resiste, al nostro sé che sperimenta il bisogno di trasformazione. Bisogna mettere in movimento la nostra energia creativa, quel volano che ci spinge all’azione quando i tasselli dei nostri piani di ‘resistenza’ saltano.

È il momento di rimettere al centro la relazione con l’altro e porre massima attenzione sul proprio capitale emotivo. Dobbiamo imparare ad investire davvero su noi stessi e sviluppare traiettorie di crescita autentiche che interpretino il cambiamento in armonia con i nostri valori. Un passaggio non da poco che riguarda l’intelligenza emotiva e i suoi quattro quadranti: conoscenza di sé, gestione di sé, conoscenza del sistema, gestione del sistema.

Farlo, significa, scegliere che leadership vogliamo essere. Una scelta che determina la direzione con cui affrontare il cambiamento.

<Cominciate a fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderti a fare l’impossibile>. S. Francesco

Resilienza dinamica: https://cleolicalzi.it/2021/10/13/3334/

Lavori in corso

Siamo abituati a marciare con il pilota automatico innestato. Ci capita continuamente nel quotidiano; e non ce ne rendiamo nemmeno conto. Lasciamo che le nostre re-azioni siano guidate da istinti e non lasciamo entrare in gioco la nostra consapevolezza.

E’ capitato ad ognuno di noi. Siamo in macchina, quando ad un certo punto il nostro tragitto quotidiano viene interrotto dal cartello “lavori in corso”. In una frazione di secondo, anche in modo impercettibile, la sensazione che istintivamente proviamo è di immediato fastidio, talvolta esasperata sino a vedere un concatenarsi di eventi avversi a noi. L’algoritmo dei nostri pensieri comincia subito a identificare tutti i ‘colpevoli’ a cui scaricare l’imprevisto evento. E nel frattempo il nostro pilota automatico perde la rotta, e si ferma.

La nostra reazione immediata ci porta ad ignorare, a negare la possibilità che qualcosa possa ‘inaspettatamente’ interrompere il nostro percorso. Il nostro radar interiore va subito alla ricerca di qualcuno o qualcosa su cui scaricare la nostra incertezza. Davanti all’impossibilità di oltrepassare l’ostacolo che ci impedisce di fare il nostro percorso abituale, attiviamo la marcia automatica della resistenza.

Ci sono due possibili alternative: innervosirsi per l’inatteso ostacolo, rimanere bloccati, elaborando la lista dei “responsabili esterni” ed attendere che il problema (dall’esterno) si risolva. Oppure sperimentare una strada alternativa.

Ecco, il cambiamento è la strada alternativa.

Solo la scelta b, che non è quella istintiva ma quella che prende vita dalle nostre motivazioni, apre la possibilità di scoprire un nuovo percorso. Anche migliorativo di quello che il flusso della nostra abitudine ci ha portato a percorrere ogni giorno.

Ognuno di noi, nel suo vissuto ha trovato la propria strada interrotta dal cartello “lavori in corso“. Ognuno di noi ha dovuto scegliere una opzione come nel caso della strada, e scegliendo, ha manifestato un modo personale di reagire e agire il cambiamento.

Il cambiamento è togliere il pilota automatico, quello che percorre sempre gli stessi tracciati e che deve resettare tutto il programma quando un’interruzione improvvisa ed inaspettata non è registrata nelle mappe.

Il cambiamento è “usare” i lavori in corso per ampliare la nostra prospettiva e tracciare un nuovo percorso. Che richiederà magari nuove abilità, nuove competenze, ma che ci permette di riprendere il volante e sentire la strada, A rimetterci alla guida con quella patente che abilita ai percorsi più difficili che si chiama agilità e che ci fa innestare la marcia del cambiamento intenzionale.

<L’intelligenza è la capacità di adattarsi ai cambiamenti> Charles Darwin

Camminando si risolve

<Si possono percorrere milioni di chilometri in una sola vita senza mai scalfire la superficie dei luoghi, nè imparare nulla dalle genti appena sfiorate.
Il senso del viaggio sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare. Camminando si apprende la vita, camminando si conoscono le cose,  camminando si sanano le ferite del giorno prima.
Cammina guardando una stella, ascoltando una voce, seguendo le orme di altri passi. Cammina cercando la vita, curando le ferite lasciate dai dolori. Niente può cancellare il ricordo del cammino percorso.> Rubén Blades

Quanto si impara camminando. Quel primo passo, che talvolta attardiamo a fare, ma che ci mette in movimento verso nuovi orizzonti.

Il metterci in cammino ci dà l’occasione di mettere via le nostre abitudini, tutto il nostro risaputo e connetterci con il nuovo.

Mettersi in Cammino significa fermarsi ed ascoltare. Prestare ascolto a chi ha una storia da raccontare significa stabilire quelle connessioni che generano valore. Che aprono la prospettiva e ci permettono di guardare un po’ oltre la nostra dimensione.

Il Cammino è divenire. E’ scoperta che nulla accade per caso, ogni elemento e momento ha un suo valore ed un suo senso: il sole che illumina il giorno e la sera che favorisce il riposo, la fioritura della primavera e la raccolta dell’autunno, la pioggia che nutre e il vento che spazza via.

Nella vita bisogna camminarci <dentro>, osservarla con curiosità, attraversare i fitti boschi e le colline impervie, scalare montagne e nuotare contro corrente, immergersi nella notte buia e scottarsi a mezzogiorno. Prestare attenzione a ciò che accade.

Il Cammino è cambiamento, un potente strumento per connettersi con il nostro sé autentico, ascoltarsi e accogliere la naturale divenire del proprio essere. Per crescere e cambiare prospettiva e costruire le condizioni perché si realizzi la  naturale trasformazione che ci appartiene.

Nel cammino non è importante la meta, ma il cambiamento che agisce in noi e che ci porta a cambiare spesso strada, verso una nuova consapevolezza.

Non camminare – rimanere fermi – significa non apprendere, non conoscere le persone e la vita, non conoscere sé stessi, non rischiare.

Rimanere fermi significa subire il cambiamento. Camminare cercando la vita significa guidarlo, il cambiamento.

Grazie al “tempo lento” del viaggio a piedi, che è leggerezza (nel senso già detto qui https://cleolicalzi.it/2020/08/07/bagaglio-leggero/) ogni passo è una preziosa occasione di conoscenza e di costruzione di nuovi orizzonti.

La strada può essere lunga e difficile, ma per va percorsa, superando ostacoli e imprevisti. Vivere l’esperienza del cammino come una opportunità per incontrare se stessi significa utilizzare più strumenti. Oltre alla natura, che fa da sfondo e da guida, la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, ma soprattutto il senso della consapevolezza, la potentissima arma che ci fa diventare il “qui ed ora” la base per immaginare il futuro, che ci fa accorgere di cose a cui non avevamo sinora prestato attenzione, che ci rende improvvisamente di valore alcune relazioni a cui non avevamo guardato con spirito generatore di futuro.

Il senso del camminare sta proprio nella scoperta che facciamo.

C’è qualcosa di unico nel camminare, soprattutto nel camminare lento e consapevole: la percezione del cambiamento che si va creando. Nelle cose che attraverso il camminare, si vanno risolvendo.

Ogni cosa si trasforma: ciò che ci accompagna all’inizio non è uguale a ciò che troviamo alla fine. L’andatura rallenta, fermandosi ad ascoltare una storia. Oppure accelera ricercando l’innovazione. Si ferma davanti agli ostacoli del cammino fermandosi a curare le fratture che non avevamo lasciato emergere. O, improvvisamente, cambia tragitto, <ascoltando una voce seguendo le orme di altri passi>.

Solvitur ambulando, camminando si risolve.

Ed è proprio mettendoci in cammino, che scopriamo quanto fosse necessario quel primo passo per arrivare ad una soluzione che ci sembrava inimmaginabile.

Respons-Abilità

Responsabilità è la capacità di rispondere alle circostanze. Il saper leggere il contesto e reagire in modo adeguato alle circostanze.

E’ sapere connettere lo stimolo e la risposta, in modo efficace. Tra lo stimolo e la risposta che noi diamo si interpongono infatti le interferenze, ovvero quei condizionamenti che ci portiamo dentro e che alla nostra mente suonano così familiari da metterli in atto automaticamente. Condizionamenti che spesso ci funzionano quasi da leve di rassicurazione. Da cancelli che ci chiudono dentro la gabbia delle nostre certezze. Essere abili a rispondere significa invece aprire porte al nuovo, ma in modo costruttivo.

La respons-Abilità è allora l’abilità di cogliere il momento, gestire le emozioni rispetto allo stimolo e <scegliere> di re-agire consapevolmente.

Essere responsabili significa proprio scegliere di farsi carico di un impegno. 

La persona Respons-Abile si assume infatti l’onere delle sue azioni e non richiama il fato per dare una risposta a ciò che accade. E non cerca un colpevole per ogni cosa che non è andata come era auspicabile andasse.

Essere respons-abili significa invece non lasciare le vele in balìa del vento <che capita>, ma essere noi a scegliere l’assetto da dare alle vele e decidere se andare di bolina stretta o di lasco.

La respons-Abilità è la direzione che decidiamo di dare ai nostri pensieri.

Il cambio di paradigma della respons-Abilità trasforma il “devo fare” o “devo avere” in “posso essere” o “posso fare”. Il risultato di questo cambio di passo dipende da quanto decidiamo di lavorare sulla nostra area di influenza, sulla nostra consapevolezza.

Essere respons-abili significa quindi riprenderci il timone della nostra vita. Riprendere noi il controllo.

Presupposto della respons-abilità è la libertà del soggetto, la capacità di agire e scegliere liberamente. La respons-abilità si fonda infatti sull’esercizio consapevole del libero arbitrio. Si può rispondere delle proprie azioni solo se queste sono ispirate da una visione in cui si crede fortemente.  Se attorno a questa visione – con metodo ma soprattutto con la necessaria agilità – costruiamo condivisione.

La leadership respons-Abile assume infatti un triplice impegno, verso di sé, verso la sua organizzazione e verso la società.

In un ecosistema sempre più veloce, incerto e complesso, la respons-abilità potrebbe sembrare un fattore frenante, qualcosa che ci costringe ad ancorare le nostre scelte e decisioni a <qualcosa che va oltre il quotidiano ed oltre la dimensione singola>. Per molti è erroneamente vista come un costo e non come un’opportunità. 

Ed invece è la variabile che realizza una visione, che proietta la direttrice del business oltre la dimensione locale e temporale, assumendo <impegni> che si tradurranno in cambiamenti e innovazione. 

La responsabilità nel sistema impresa regala la lucidità nel vedere la relazione che lega in maniera complessa ogni azione e ogni persona ad altre azioni e altre persone. Ma ci permette anche di produrre innovazione, scegliendo di innovare e non solo adattandosi  alla tecnologia.

<Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.> Martin Luther King

Libera il tuo talento

<La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più. Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? In realtà chi sei tu per non esserlo? Il nostro giocare in piccolo non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi, cosi che gli altri non si sentano insicuri intorno a noi. Siamo tutti nati per risplendere. E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso. E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.> Marianne Williamson

Giocare al ribasso non serve. Anzi è decisamente una leva dissonante. Una scusa che ci raccontiamo per non metterci veramente in gioco, per non abbandonare lo status quo delle nostre paure.

La paura di essere “troppo” è un ostacolo a mettere in gioco il proprio talento. A lavorare sulle nostre potenzialità. Sulle abilità che abbiamo “in potenza” ma che solo se li sperimentiamo diventano agire ed orientano il cambiamento.

Giocare al ribasso è il bivio pericoloso tra aspettative e motivazioni. La paura prende la strada delle aspettative. Il cambiamento quella delle motivazioni.

Otto Scharmer, professore del MIT di Boston, ha proposto un interessante un modello innovativo di apprendimento per il cambiamento basato sull’intelligenza emotiva, la U-Theory. Alla base di questo modello l’assunto della relazione tra leadership e paura. Paura del nuovo, di una nuova idea di impresa, di un nuovo progetto, di qualcosa di nuovo del quale non si ha una conoscenza pregressa. Paura di doverci mettere alla prova.

La paura a cui fa riferimento Scharmer è una parola costruttiva e non limitante, che consente di affinare i sensi per meglio comprendere il cambiamento in atto. E’ una paura che aiuta a comprendere meglio le responsabilità perché un leader non solo deve sapere intuire la strada da percorrere ma anche avere la capacità di portare con sé tutte le persone di valore che ritiene siano importanti per condividere il viaggio.

La paura altro non è che la <chiusura della volontà>, il timore di perdere ciò che abbiamo, di venire emarginati.

Ciò che ci impedisce veramente di connetterci con la soglia della creatività e arrivare a scoprire quello che di nuovo sta emergendo sono le “voci interiori di resistenza” che ce lo impediscono. Atteggiamenti che favoriscono una struttura sociale di separazione, che alzano muri, facilitano la disconnessione con il mondo circostante, e non consentono di cogliere quel che c’è di nuovo; che tendono a distruggere le relazioni tra le persone, a incolpare gli altri dei propri insuccessi, a minare il senso di fiducia. Sono tutte espressioni di “absencing”, di assenza, di incapacità di cogliere il senso del presente, di sentire il presente come inizio di un futuro che dipende dal nostro talento.

Solo quando <permettiamo alla nostra luce di risplendere> diamo – e non inconsapevolemente – agli altri la possibilità di fare lo stesso. Solo quando <ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri> e scatena intelligenza collettiva.

Ed allora, lasciamo che esploda in luce il nostro talento. Lavoriamo perché prevalga un altro ciclo, quello del “presencing”, dove i sistemi sociali possano sviluppare, attraverso ogni soggetto coinvolto, la curiosità (apertura della mente che genera creatività), la compassione (apertura del cuore che genera ascolto attivo) e il coraggio (apertura della volontà che genera azione), creando architetture di connessione in grado di abbattere tutti i muri.

Siate forti, siate gentili

Siate forti, siate gentili”, così la Prima Ministra neo-zelandese Jacinta Ardern, ha lanciato la sua idea di Leadership. Cogliendo una delle traiettorie di cambiamento attuali, che vede le relazioni di lavoro sempre più improntate verso l’empatia, la gentilezza, la generosità, la solidarietà, la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere dagli altri.

Ma nella frase della Ardern c’è di più: “Be strong be kind”. Kind non è solo gentilezza, è in inglese anche la parola che esprime la cura, la premura verso gli altri.

La gentilezza e la cura sono soft skill divenute sempre più importanti nelle relazioni professionali. In uno scenario reso sempre più volatile ed incerto, possono dimostrarsi competenze strategiche perché capaci di generare nuovo valore. Non a caso per Henry David Thoreau, <la gentilezza è un investimento che non fallisce mai>.

La leadership gentile è allora proprio quella che nella complessità può marcare la differenza e segnare la direzione del cambiamento. Una leadership che sa “ascoltare” e “sentire” le persone, due dimensioni molto importanti che si rilevano leve strategiche per una leadership efficace.

Saper essere gentili significa sapere ridisegnare i nostri confini. Aprire porte che avevamo escluso dai nostri obiettivi. La Leadership gentile sa infatti creare connessioni generative.

Sa riconoscere le emozioni e prendere decisioni finalizzate a massimizzare il bene comune, ed attraverso il “benefit mindset” è capace di coniugare il successo proprio, il successo aziendale e la realizzazione del bene collettivo.

La gentilezza è la capacità di capovolgere il paradigma do-ut-des dando priorità alla relazione. Realizzare quel meraviglioso ossimoro che è “avere la premura di aspettare”, decidere cioè intenzionalmente di rallentare se serve per recuperare qualcuno che è rimasto indietro. Significa avere la capacità di permettere agli altri di sviluppare il proprio talento, offrendogli gli strumenti per svilupparlo senza imporre il proprio. Un compito difficilissimo che solo la leadership davvero risonante sa fare.

Essere leadership gentili significa allora puntare sulla risonanza nelle relazioni sociali, mescolando sapientemente autorevolezza ed empatia.

Ma significa soprattutto avere la capacità di avere cura di sé, di orientare verso di sé la stessa attenzione e la stessa cura che mettiamo nel confronto con gli altri. Essere gentili significa infatti abbracciare la propria vulnerabilità e farne strumento per sviluppare forza.

Significa puntare lo sguardo non sui propri piedi ma ben oltre, verso l’orizzonte.

<Quando la misura e la gentilezza si aggiungono alla forza, quest’ultima diventa irresistibile.> Gandhi

Leggi anche <Il potere della gentilezza>: https://cleolicalzi.it/2020/09/19/il-potere-della-gentilezza/

Riley ed i suoi piloti

Una cabina di comando, dove cinque “piloti della mente” si destreggiano nel difficile compito di guidare le sfide della piccola Riley. E’ la trama di Inside Out, il film della Disney Pixar uscito nel 2015, che racconta la storia di un cambiamento attraverso una nuova alleanza tra emozioni.

I cinque piloti sono proprio le cinque emozioni primarie di Paul Ekman, gioia, tristezza, rabbia, paura e disgusto, personaggi intenti ad “agire e reagire” alle vicende che riguardano la piccola Riley.

I 5 piloti entrano in gioco proprio quando Riley a causa di un trasloco si trova ad affrontare la via dell’ignoto e dell’incertezza. Ed è proprio a causa di questo evento, che la costringe ad abbandonare la sua zona comfort, che il pilota automatico che guidava l’agire di Riley viene sostituto da un team di piloti interattivi che devono sperimentare una difficile convivenza nella “cabina di controllo” della mente di Riley.

Nel contrasto tra un passato percepito erroneamente come perfetto ed un presente che è segnato dall’incertezza e dal caos – il percorso di crescita di Riley si gioca proprio sul dominio della console psichica di 5 emozioni che saranno le prime ad accorgersi di come, quando iniziano a collaborare tra loro, sono capaci di trasformare per prime sé stesse e guidare Riley ad esplorare nuove vie.

Ogni emozione ha la funzione di far fronte a situazioni ricorrenti. Paura ha il compito di proteggere dal pericolo, il Disgusto tiene lontano da ciò che non è in linea con noi, Rabbia stimola la reazione di fronte a ciò che potrebbe sovrastarci. Gioia e Tristezza sono antagoniste: credono che una esclude l’altra.

Gioia – che solo apparentemente potrebbe sembrare l’unica emozione “positiva” – all’inizio è insignita di leader “tacito” delle altre emozioni e pertanto guida l’entrata in scena degli altri co-piloti.

Ma il film sperimenta la sua trama narrativa proprio sulla funzione adattiva delle emozioni, ovvero sulla interazione trasformativa delle emozioni. Gioia imparerà presto che ha bisogno di interagire con la tristezza, per diventare azione. E che senza le altre 5 emozioni è proprio la gabbia che tiene Riley dentro la zona comfort.

Il colpo di scena che cambia la trama è l’entrata in scena di un’altra protagonista della storia: la sesta emozione, la sorpresa. Cioé la variabile inattesa. Quella che dá il via al cambiamento.

Riley conoscerà cosi parole prima ignote che implicano responsabilità, revisione di sé stessi e degli eventi, l’apprendimento del nuovo, il valore del tempo. Solo quando conoscerá le sue emozioni e imparerà a dare loro un nome – ed un posto – Riley sarà finalmente capace di viverle pienamente e attraverso loro guidare il suo cambiamento.

Alla fine del film, apparirà infatti una nuova console più grande, con comandi per ciascuna emozione, in modo che ognuna possa manifestarsi. Compariranno anche nuovi ricordi connotati da un miscuglio delle diverse emozioni, segno che la complessità del suo mondo interno e dei suoi stati emotivi è aumentata.

Il film ci insegna, attraverso la leggerezza del cartone animato, l’importanza delle emozioni nei processi di cambiamento. Esattamente come nel modello di intelligenza emotiva di Daniel Goleman. Quella potenza che abbiamo in noi di guidare il nostro agire.

Dov’è quindi la felicità, dentro (inside) o fuori (out) di noi? Inside Out mantiene la doppia via: dentro e fuori. Solo alla fine si svela quale è la chiave di tutto che permette a Riley di prendere lei posto nella “cabina di controllo”: la consapevolezza attraverso la quale diamo ad ogni emozione il suo ruolo leader e diamo a noi la possibilità di entrare finalmente in scena.

Ikigai: il dono di una seconda vita

Ikigai è un termine giapponese che significa “ragione per alzarsi la mattina” . Quello che in gergo aziendale viene chiamato “purpose”, il perché di una azienda, i suoi valori, i suoi significati. Ma che qui si intende in un’accezione ancora più potente, quella di <passione>.

Quella passione che se manca fa diventare il lavoro una gabbia. Ma che se invece c’é, dá potenza al talento.

Il motore della vita, che spesso cerchiamo tutta la vita distante da noi, senza scoprire che lo portavamo dentro nascosto tra negazioni, vincoli e divieti. Tra quegli ostacoli che mettiamo noi stessi tra noi ed il nostro futuro.

L’Ikigai è nascosto in ognuno di noi, basta “spegnere il rumore” e dirsi un po’ di verità.

“Darsi il permesso” di essere felici.

L’Ikigai è proposto come metodo per giungere alla conoscenza di sé, alla scoperta di ciò che di più autentico dà senso e realizzazione alle nostre esistenze. Come strumento per dare luce al “sé autentico”.

La filosofia dell’Ikigai pone al centro della felicità la riscoperta dei piccoli piaceri della vita quotidiana. Quelli che di solito mettiamo all’ultimo posto della lista delle cose da fare. Quei piccoli doni che dobbiamo concederci, per ritrovarci autenticamente. Come il primo caffè della mattina nel silenzio della natura disconnessi da tutti o come quella camminata nel silenzio la mattina prima di iniziare la giornata di lavoro come spazio per nutrire i nostri pensieri e caricarci di senso.

Ikigai significa investire le proprie energie in ciò che ha davvero valore e significato. In ciò che dà il nutrimento necessario per dare una direzione al nostro impegno.

Ikigai indica il vivere una vita piena di significato che esprima realmente il nostro essere. Significa trarre il meglio da ogni giorno, dare spazio alla gioia, cercare la bellezza nell’imperfezione, portare l’attenzione verso le piccole cose poiché in esse si riflettono le grandi. Scorgere la crepa da cui fare entrare la luce.

L’ikigai mette al centro la ricerca di una motivazione che fa innestare la maircia giusta. Ed è soprattutto nei momenti in cui ci troviamo ad affrontare una salita che dovremmo spegnere il pilota automatico e ingranare la marcia che ci ricarica.

Ognuno di noi possiede il proprio Ikigai, ma per trovarlo serve percorrere la strada della consapevolezza. Accettare di entrare in confidenza con le nostre vulnerabilità. Occorre decidere di farsi “dono” di una seconda vita. Autentica perché finalmente libera dal dovere dimostrare il valore delle cose attraverso il parametro del risultato.

Non può esserci leadership che non si fermi prima a indagare la propria “ragion d’essere”. Perché per ispirare gli altri e guidarli attraverso una visione, serve prima avere sgomberato il campo da tutto ciò che ci impedisce di ”aprire le finestre” sul nuovo.

Mi fido di te

<Che cos’è la fiducia? Poter volare sapendo che ci sono mani sicure dove atterrare.>

La fiducia è un affidamento, un dare credito ad un altro, un sentimento positivo e costruttivo, capace di creare alleanze vitali.

Fiducia, dal latino fides, era la corda del liuto che doveva essere ben tesa perché potesse suonare. La fiducia è cosi, una corda ben tesa che collega due parti, rendendole più forti. Creando quel legame che unisce e dà la forza.

Il bisogno di fiducia nasce allora dalla consapevolezza dei nostri limiti. Sono proprio i nostri limiti che ci spingono a cercare qualcuno di cui fidarci. Dalla consapevolezza della nostra vulnerabilità, nasce il bisogno di accogliere l’altro, ed affidarsi a lui.

Fiducia è allora scegliere, e costruire nelle nostre consapevolezze l’affidabilità dell’altro. Il riconoscimento di questa affidabilità è infatti qualcosa che si conquista sul campo, e che richiede l’incontro e la connessione. E’ un percorso che facciamo “sul campo” per passare dall’affidabilità all’affidamento.

Pur avendo la stessa radice, la fiducia a differenza della fede non è un atto istintivo, è invece un processo che abbiamo bisogno di sperimentare, esponendoci al rischio di non venire corrisposti. E’ un atto di conoscenza, di scoperta degli stessi valori.

Serve un <camminare insieme> per dare fiducia. La fiducia è creazione di una ‘intimità’ che genera il terreno giusto per connettere due parti.

Hernest Hemingway scrisse: “il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia”.

La fiducia è allora una mano che si tende a qualcuno per avere di ritorno un’opportunità. Non facile. Bisogna saper correre il rischio, accettando la possibilità che si possa rimanere delusi, anche traditi nella disponibilità data.

A differenza della fede, la fiducia è un atto sospeso. Per questo veniamo sorpresi dal tradimento, come atto che interrompe il cammino e che ci fa intravedere la perigliosità di quel salto nel vuoto. “Tradere” significa infatti “abbandonare qualcuno“, “consegnarlo ad un altrove“. Ed è questo abbandono, la sensazione che proviamo quando la fiducia non genera una risposta di accoglimento. Quando ci troviamo davanti lo spezzarsi di un patto.

La fiducia è una competenza essenziale per la leadership ed è strumento fondante per la crescita delle organizzazioni. Non si guidano le persone, sono queste che scelgono se farsi guidare e da chi e alla base di questa scelta c’è la fiducia verso il leader rispetto a quanto incarna valori che si riflettono in una missione e in un proposito e quanta ne genera lui stesso nei collaboratori.

Il leader non può più essere il solo a prendere le decisioni, ma deve indirizzare gli altri e porli in condizione di prendere le loro, ognuno per la propria sfera di responsabilità e influenza.

Fiducia che richiama in sé la capacità di muoversi accettando il rischio che i risultati possano essere diversi da quelli che ci aspettiamo. Nelle azioni di leadership questo valore assume un’importanza nuova e si muove contemporaneamente, su due dimensioni: la fiducia del leader in sé stesso e la fiducia del leader negli altri.

Per avere fiducia, bisogna quindi imparare ad avere il senso della sfida ed acquisire dimistichezza con il rischio.

Ma una volta raggiunta e corroborata nella consapevolezza, proprio la fiducia diventa l’arma più forte dell’organizzazione che inizierà a suonare un’unica sinfonia, armonizzando le diverse voci soliste sul pentagramma  armonico della fiducia.

<L’esperienza è l’insegnante più difficile. Prima ti fa l’esame poi ti spiega la lezione.> (O. Wilde)

Il potere nutritivo del Feedback

<Tutti gli aerei viaggiano fuori rotta per la maggior parte del tragitto, ma si riallineano continuamente al piano di volo. E alla fine arrivano a destinazione. Questo vale per tutti noi come individui, famiglie e aziende. La chiave di tutto è avere un “fine in mente” e condividere un impegno cui dare costantemente un feedback e cui correggere la direzione.> Così Stephen Covey descriveva il feedback: uno strumento per correggere la direzione di un piano di volo. Oggi esperti di volo mi dicono non sia più cosi ma la metafora di Covey raffigura perfettamente il valore del feedback.

Il feedback è un riscontro, una luce che qualcuno accende per indicarci una via che non vedevamo.

Ed è molto affascinante l’immagine del nutrimento che l’anglicismo porta con sé (to feed, nutrire). Ma anche il concetto di retroazione (back, indietro): come l’immagine di un boomerang che ci riporta indietro il significato di qualcosa che non potevamo vedere se non scambiandolo con qualcun’altro. Qualcosa che ci torna solo se l’abbiamo saputo tirare nella “giusta direzione”.

Che sia positivo o negativo, il feedback ci alimenta con informazioni preziose che ci permettono di correggere la direzione, riprogrammandola in maniera costruttiva e consapevole.

Il feedback crea connessioni; è infatti uno strumento e una porta d’accesso ad uno spazio/tempo ampio, collettivo. E’ un passaporto verso un “altrove“, che ci permette di esplorare territori prima sconosciuti.

Il Feedback è un atto di generosità. Dare un feedback richiede infatti intelligenza emotiva. Ma è anche un atto di umiltà, dote che solo le Leadership generose hanno. Per ricevere un feedback dobbiamo infatti essere disposti a metterci in discussione ed essere consapevoli delle nostre vulnerabilità.

Il feedback è espressione di autenticità, perché permette di aprire quei flussi osmotici che permettono di “sprigionare i talenti” e contaminarsi nella diversità. Di crescere, nel confronto.

Un feedback autentico e costruttivo è il nostro contributo a promuovere il successo della squadra attraverso il mescolarsi dei diversi punti di vista.

Per nutrire il feedback ci vuole coraggio, cura, fiducia. Ci vuole equilibrio tra autorevolezza e capacità di continuo apprendimento. E’ un’alchimia che dà la direzione. Una nuova direzione generativa.

L’ascolto degli altri definisce la distanza tra quello che siamo e quello che vorremmo essere e ci aiuta a colmarla. A compiere quel tratto di strada tra il nostro sé ideale ed il nostro sé reale.

I migliori insegnanti sono i feedback critici ma solo se accompagnati da quel legame di fiducia ed ugual visione del futuro che generano le connessioni e che permettono di costruire intelligenza collettiva.